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mercoledì 20 febbraio 2019

Dietro gli occhiali da sole

La professoressa di filosofia era una signora piuttosto originale. Portava sempre un lungo piumino marrone, era alta e aveva spalle larghe, capelli tiniti di nero corvino con la ricrescita che s'affacciava furbescamente dall'attaccatura sulla fronte. A lei non doveva interessare poi molto.
Il viso risultava ancor più avvolto dal mistero, celato com'era da un paio di grosse lenti scure, occhiali da sole a goccia con la montatura tipica degli anni 70'.
Dietro quei vetri appannati dall'incuria e dall'alito caldo che emetteva di tanto in tanto, si nascondevano un paio di occhi dolci e tristi. Li vedevamo, molto di rado, quando sollevava le lenti dal naso per guardarci meglio: erano color verde acqua misto a ghiaccio.
Poteva incutere timore, la professoressa, con quel suo aspetto austero ed esotico ad un tempo, ma ogni angoscia si spegneva nel nostro timoroso animo di novelli liceali, ogni qual volta cominciava a parlare: aveva un tono affabile quanto sembrava coriaceo l'involucro che lo conteneva.
Non ho molti ricordi di quella donna, né di ciò che tentò di insegnarci. In quel periodo la mia passione per la filosofia era ancora ampiamente sopita, e le sue lezioni non mi sembravano molto più interessanti di quelle di chimica, fisica o matematica.
Però non dimentico i suoi occhi, la sua voce buona, e tutta quella roba che aveva addosso. E una domanda, che un giorno, quasi sommessamente, ci pose: "ragazzi voi siete ottimisti o pessimisti?"
Né l'uno né l'altro, mi venne da rispondere democristianamente.
Pessimista, in realtà, lo sono sempre stato, anche a discapito dei miei sedici anni. Ma amo tante cose della vita, e tante cose amo degli uomini, quasi quante ne disprezzo.
Soprattutto so, perché con alcune di queste ho la fortuna di condividere la quotidianità, che esistono rare gemme di luce, così luminose che rischiarano molto di ciò che le circonda.
E, anche se spesso non sapevo dove trovarla né come utilizzarla, ho sempre sentito che anche dentro di me, da qualche parte, doveva esserci quella stessa luce, più giallastra e fioca, ma resistente, assetata, implacabile.
Pessimista sì, rassegnato no.
Un po' mite e un po' forte, come la nostra singolare insegnante di filosofia.


sabato 9 febbraio 2019

Diario di viaggio: San Polo e la chiesetta smarrita


Io, Chiara e Vincenzo, il suo papà, siamo amanti della natura e delle lunghe passeggiate. Insieme ne abbiamo intraprese diverse, alcune anche particolarmente impegnative, e quasi tutte culminate sul crinale di uno dei tanti monti molisani.
Ieri pomeriggio, per sfuggire al torpore delle grigie giornate invernali e alla claustrofobia delle nostre case, che durante questo periodo sembrano inspessire i propri muri nel tentativo di abbracciarci, con l'annessa sensazione di soffocamento che talvolta ne diviene, abbiamo deciso di fare una passeggiata naturalistica a San Polo Matese.
Il borgo di San Polo è estremamente vicino al nostro capoluogo, e dopo aver superato poche curve a gomito, ci si ritrova ai suoi piedi. Con le sue quattrocento anime e poco più, il paesino si presenta quasi disabitato al visitatore, ma non per questo privo di fascino: il centro storico si arrocca sulla parte apicale dell'abitato, dal quale spicca una piccola chiesetta più volte rimaneggiata. Caratteristica del borgo e delle rocce circostanti sono i reperti fossili che vi si incontrano, con impronte di conchiglie e altri esseri abissali, ombre di un mondo passato che si è ritirato da queste terre.
Appena giunti nella piccola piazzetta con annesso fontanino, Vincenzo, grazie alle sue peculiari doti oratoriali, nonché alla sua naturale socievolezza, attacca bottone con due simpatici anziani del posto, i quali ci indicano la strada per raggiungere la chiesetta di S. Maria (spero di ricordare bene il nome), meta del nostro viaggio.
"Saranno poco più di quattro chilometri. Sempre dritto, non potete sbagliare".
Quattro chilometri sembrano pochi alle orecchie di un atleta da tapis roulant, ma Vincenzo, dall'alto della sua lunga esperienza di camminatore montano, ci mette in guardia: "Forse ci conviene guadagnare un po' di terreno in macchina, visto l'orario e il dislivello del tragitto che ci attende".
Ma io e Chiara siamo stati temprati dai venti chilometri percorsi tra le brulle montagne intorno a Campitello, con oltre mille metri di dislivello. Dissentiamo, siamo convinti che ce la faremo senza grossi inciampi.
Iniziamo a salire di buon passo: ad ogni metro l'aria si fa più fine, gli alberi sembrano i guardiani del tempo, i prati, le pozzanghere, il silenzio sospingono i nostri sforzi. Il silenzio rotto puntualmente dal nostro amabile chiacchierare, dalla simpatia contagiosa di Vincenzo, dalla Grazia di Chiara.
Siamo in cammino da oltre un'ora e mezza, e della chiesetta nemmeno l'ombra. Cominciamo a dubitare di aver intrapreso la giusta strada.
Il sole, già fiaccato dalle velate ma consistenti nubi, s'abbassa insaziabilmente all'orizzonte. Ci fermiamo su una delle panchine che un signore del posto ha amorevolmente intarsiato di aforismi sulla bellezza e sul rispetto della natura. Dividiamo a spicchi una non troppo saporita arancia, e decidiamo di proseguire ancora per un po'. I panorami mozzano quel poco di fiato che rimane dopo ogni sospiro, la chiazze di neve congelata cominciano ad accompagnarci e ci ricordano che siamo in pieno inverno anche se la giornata è calma ed asciutta.
Dopo aver superato le miniere di manganese, ci addentriamo in un fitto boschetto tutto marrone, ma il giorno si fa sempre più breve, il sole impietoso è sparito dietro il profilo del monte, e la paura di aver sbagliato direzione ci consiglia di tornare sui nostri passi e ridiscendere al paese. Per di più Vincenzo, scherzando, dice a Chiara che da un momento all'altro potrebbe comparire un branco di lupi. E lei, che agli scherzi crede bene fino ad un certo punto, non se lo fa ripetere.
Arriviamo a San Polo quando è ormai buio. Siamo felici, nonostante tutto: abbiamo camminato tanto, respirato aria buona, riempito gli occhi di natura per lo più incontaminata, le orecchie di silenzio e parole buone.
Sostiamo ancora un attimo al piccolo baretto dirimpetto alla piazza prima di ripartire. Una mezza birra noi, un biscotto al cioccolato lei, e la compagnia dell'affabile proprietario del locale, un giovanotto ben piazzato e alto il mio doppio, con gli occhi scuri e aperti al dialogo, al quale facciamo vedere la foto del boschetto dove abbiamo deciso di rigirarci. Ci svela che a poche centinaia di metri avremmo trovato la fantomatica chiesa, non più grande di una cappelletta privata ma assai cara agli abitanti del luogo, che ne venerano la Santa e la raggiungono a piedi ogni cinque d'Agosto.
Più di tutto rimpiangiamo di non esserci potuti abbeverare all'attigua fonte; ma poco importa, sarà l'occasione per tornare.
Per questa sera rincasiamo più sereni, più stanchi, più affamati. Più appagati. 

mercoledì 6 febbraio 2019

Mi scrivo

Stavo pensando ad una di quelle fulgide definizioni, quelle massime concise e ficcanti, estremamente rivelatrici nel loro pur apparente ermetismo. Aforismi, li chiamano.
Avrei detto allora, e senza temere di allontanarmi troppo dalla mia realtà, che scrivo per riconoscermi, ancor prima che per esser riconosciuto.
Eppure avrei detto solo una parte della verità, e questo mi spinge a tentare una risposta più esaustiva.
Scrivo per necessità, prima d'ogni altra cosa. La necessità di un atto che trovo naturale, non per l'ingenua pretesa di schiudere un'ispirazione velleitariamente artistica, ma per il rasserenamento che m'induce tale gesto. Quindi scrivo anche perché mi piace, certo.  Perché voglio esprimermi, e mi sento assai più a mio agio facendolo riempiendo un foglio bianco, materiale o virtuale che sia, con tanti piccoli segni neri coi quali cerco di disegnarmi nel mondo che mi immerge e di cui sono immerso, tratteggiando i contorni non come li vedo ma come li sento, piuttosto che parlando. Quando parlo mi manca il gesto e il contatto, sfuggono le parole, non riesco ad accalappiarle quanto vorrei.
Insomma, se ho paura di non essere un bravo scrittore, di certo mi sento spesso goffo come oratore.
Si dice che si scriva per colmare un vuoto. C'è chi al suo vuoto dà un nome: Dio, turbamento, verità. 
Si crea per colmare un vuoto. 
La scrittura è creazione, invenzione, sebbene sempre più sfoci nella ripetizione. Ripetizione di contenuti, e soprattutto di forme: le regole grammaticali ne tracciano lo scheletro, la logico-discorsività ne rappresenta la linfa. Ciò che dico deve essere comprensibile, sistematico, consequenziale. Sono le fondamenta del nostro sistema culturale.
Un po' come gli astrattisti nelle arti figurative, ad un certo punto alcuni scrittori hanno criticato questa metodologia.
A loro attiene il merito di avermi fatto riflettere su scelte che mi parevano ovvie, scontate. Voglio dire, come si può pretendere di esprimersi senza lasciarsi capire, senza usufruire delle coordinate che ci permettono di decifrare razionalmente, un pensiero, un sentimento? Eppure si può. Di più, si deve.
La poesia è la massima esponente di quest’esternazione astratta. Ma non voglio perdermi, in questa occasione, tra i meandri della trattatistica, che tanto non servirebbe comunque a spiegare e annullerebbe quel che ho poc’anzi affermato.
È mia unica intenzione porre risalto alle diverse sfumature della scrittura, al suo non lasciarsi incatenare da leggi prestabilite.
Perché scrivere è anzitutto un gioco, un gioco che non risponde a regole poiché esula dalla competitività, dalla voglia o necessità di arrivare primi; bensì un’attività ludica che basta a se stessa, il cui unico scopo è il divertimento. Troppo poco? No, molto più di quanto vogliamo ammettere.
Quando il gioco si trasforma in competizione ecco che arriva la letteratura, la peggior nemica della scrittura. Essa detta regole, stabilisce dogmi, avvia stupide tenzoni, in cui ciò che conta non è più la presunta autenticità di quel che si dice, ma la posa, il riscontro di pubblico ad ogni costo, il punto di vista del lettore e non più quello dello scrivente.
Sebbene abbandonare la rilevanza concessa al punto di vista del lettore appaia oggi poco più che un’utopia, ritengo che lo scrittore che ne tenga conto più del dovuto, ossia vi si prostri cedendo incondizionatamente pezzi di autenticità, si  faccia violenza nel cercare l’empatia di chi legge. L’empatia non si chiede, non si cerca né si ottiene: si dà e si riceve. Oppure non esiste.
Con ciò vorrei solo esprimere una speranza, che spendo in primis per me stesso, ovvero l’auspicio che si smetta di scrivere pensando soprattutto al riscontro che ne potrebbe conseguire, e si torni, o meglio, si cominci a scrivere per tradurre ciò che davvero si sente.

In fin dei conti, che s’inizi a giocare, e quindi, a scriversi per davvero.