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mercoledì 6 febbraio 2019

Mi scrivo

Stavo pensando ad una di quelle fulgide definizioni, quelle massime concise e ficcanti, estremamente rivelatrici nel loro pur apparente ermetismo. Aforismi, li chiamano.
Avrei detto allora, e senza temere di allontanarmi troppo dalla mia realtà, che scrivo per riconoscermi, ancor prima che per esser riconosciuto.
Eppure avrei detto solo una parte della verità, e questo mi spinge a tentare una risposta più esaustiva.
Scrivo per necessità, prima d'ogni altra cosa. La necessità di un atto che trovo naturale, non per l'ingenua pretesa di schiudere un'ispirazione velleitariamente artistica, ma per il rasserenamento che m'induce tale gesto. Quindi scrivo anche perché mi piace, certo.  Perché voglio esprimermi, e mi sento assai più a mio agio facendolo riempiendo un foglio bianco, materiale o virtuale che sia, con tanti piccoli segni neri coi quali cerco di disegnarmi nel mondo che mi immerge e di cui sono immerso, tratteggiando i contorni non come li vedo ma come li sento, piuttosto che parlando. Quando parlo mi manca il gesto e il contatto, sfuggono le parole, non riesco ad accalappiarle quanto vorrei.
Insomma, se ho paura di non essere un bravo scrittore, di certo mi sento spesso goffo come oratore.
Si dice che si scriva per colmare un vuoto. C'è chi al suo vuoto dà un nome: Dio, turbamento, verità. 
Si crea per colmare un vuoto. 
La scrittura è creazione, invenzione, sebbene sempre più sfoci nella ripetizione. Ripetizione di contenuti, e soprattutto di forme: le regole grammaticali ne tracciano lo scheletro, la logico-discorsività ne rappresenta la linfa. Ciò che dico deve essere comprensibile, sistematico, consequenziale. Sono le fondamenta del nostro sistema culturale.
Un po' come gli astrattisti nelle arti figurative, ad un certo punto alcuni scrittori hanno criticato questa metodologia.
A loro attiene il merito di avermi fatto riflettere su scelte che mi parevano ovvie, scontate. Voglio dire, come si può pretendere di esprimersi senza lasciarsi capire, senza usufruire delle coordinate che ci permettono di decifrare razionalmente, un pensiero, un sentimento? Eppure si può. Di più, si deve.
La poesia è la massima esponente di quest’esternazione astratta. Ma non voglio perdermi, in questa occasione, tra i meandri della trattatistica, che tanto non servirebbe comunque a spiegare e annullerebbe quel che ho poc’anzi affermato.
È mia unica intenzione porre risalto alle diverse sfumature della scrittura, al suo non lasciarsi incatenare da leggi prestabilite.
Perché scrivere è anzitutto un gioco, un gioco che non risponde a regole poiché esula dalla competitività, dalla voglia o necessità di arrivare primi; bensì un’attività ludica che basta a se stessa, il cui unico scopo è il divertimento. Troppo poco? No, molto più di quanto vogliamo ammettere.
Quando il gioco si trasforma in competizione ecco che arriva la letteratura, la peggior nemica della scrittura. Essa detta regole, stabilisce dogmi, avvia stupide tenzoni, in cui ciò che conta non è più la presunta autenticità di quel che si dice, ma la posa, il riscontro di pubblico ad ogni costo, il punto di vista del lettore e non più quello dello scrivente.
Sebbene abbandonare la rilevanza concessa al punto di vista del lettore appaia oggi poco più che un’utopia, ritengo che lo scrittore che ne tenga conto più del dovuto, ossia vi si prostri cedendo incondizionatamente pezzi di autenticità, si  faccia violenza nel cercare l’empatia di chi legge. L’empatia non si chiede, non si cerca né si ottiene: si dà e si riceve. Oppure non esiste.
Con ciò vorrei solo esprimere una speranza, che spendo in primis per me stesso, ovvero l’auspicio che si smetta di scrivere pensando soprattutto al riscontro che ne potrebbe conseguire, e si torni, o meglio, si cominci a scrivere per tradurre ciò che davvero si sente.

In fin dei conti, che s’inizi a giocare, e quindi, a scriversi per davvero.

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