All'arrivo della primavera, quando le giornate erano abbastanza lunghe e le vecchie mura della casa si lasciavano assuefare dal tepore del sole, i miei nonni paterni lasciavano le buie stanze della loro abitazione cittadina e tornavano al paese.
Io, mia sorella e i miei genitori vivevamo al piano superiore di una palazzina costruita agli inizi del secolo scorso: due camere, un bagno e la cucina. Al piano inferiore si ripeteva grossomodo la stessa divisione: era lì che i miei nonni trascorrevano le loro giornate.
Giù il mobilio era rimasto quello degli anni 60', c'era il caminetto sporco di nero e fuligine, nel bagno solo la tazza e un piccolo lavandino.
Mio nonno paterno, di cui porto il nome, aveva un occhio di riguardo nei miei confronti, così come io serbavo grande stima e affetto nei suoi.
Alla sera ci coricavamo entrambi sul vecchio materasso con cuscini imbottiti di lana di pecora: faceva freschetto nonostante la stagione, date le spesse mura di pietra e la mancanza, al piano inferiore, di altri mezzi per scaldarsi all'infuori del piccolo caminetto. Sotto le massicce coperte pareva che l'animo si scaldasse assieme alle membra, e il nonno mi raccontava i "fattarelli": di quando, in guerra, aveva tentato di fuggire dal campo di concentramento tedesco con il suo compagno entusiasta di mangiare patate crude ed erba fresca che a lui, invece, nonostante la fame, continuavano a non garbare molto; poi l'arrivo degli americani, e ancora il celarsi nelle flautolenti fogne prima della fine della guerra.
Ma raccontava anche storielle della tradizione, come quelle del lupo e della volpe, il primo sempre soggiocato dalla più furba seconda.
Lo avrei ascoltato per ore ed ore, se solo il sonno non fosse soggiunto, ineffabile, ad irretirmi tra le sue accoglienti braccia.
Il rispettoso riguardo che tributavo agli anziani era già stato certamente instillato in me dall'educazione dei miei, ma credo si sia radicato ulteriormente in quei preziosi anni.
Non ho mai guardato ai "vecchi" come fardello da accantonare il prima possibile, bensì quale fonte d'ispirazione, cassetti ricolmi di storie da raccontare e da cui trarre preziosi insegnamenti. Certo, fin da bambino vedevo anche i lati negativi della vecchiaia: gli affanni, i volti segnati dal trascorrere del tempo e degli eventi, le malattie.
Più di questi ultimi, però, mi spaventa la prospettiva di un mondo fatto di soli "giovani", o di individui molto in là con gli anni che vogliono apparire tali. Non amo i bianchi filamenti che strenuamente continuano a spuntare tra la mia non più foltissima e castana chioma: semplicemente li accetto, sono prolungamento della mia essenza, sarebbe assurdo coprirli o mascherarli. Essere performanti, aggiornati, in voga, appare evidentemente un'esigenza comprensibile in una società tutta puntata all'apparenza e al "funzionamento" come la nostra. Bisogna comunque guardarsi dal divenire la caricatura di se stessi, e aderire più ai bisogni intrinseci del proprio corpo ed estrinseci dell'ambiente, che a quelli oramai completamente artificiosi di una società che ha perso di vista questi due fattori nodali.
La nostra epoca sembra non poter fare a meno dell'ossessione per la giovinezza, nella speranza di vivere per sempre un'esistenza svuotata di qualsiasi significato.
Rimpiango i miei nonni e la loro fiera saggezza, la dignità dei loro anni, delle loro rughe, la pesantezza dell'esperienza, il dolore degli acciacchi che esprimono ancora tutta la forza della vitalità, per quanto al suo crepuscolo.
Io e i miei coetanei saremo, come peraltro già molti altri sono, esteriorità che inevitabilmente declina senza voler soccombere, burattini che lasciano muovere i propri fili dallo schermo di un cellulare, e dimenticheremo, nel frattempo, di vivere il poco che ci resta.