Credo che non sia inopportuno affermare che il leader di questo trio è uno dei migliori chitarristi e songwriter degli ultimi vent'anni, snobbato purtroppo dalle grandi reti della musica commerciale, riesumato continuamente dalla critica, senza riuscire mai (ma probabilmente senza neanche volerlo) ad arrivare alla ribalta delle grandi masse.
Si, perchè Geoff Farina (già leader dei fenomenali Karate) fa musica adatta a luoghi piccoli, ma capace di aprirsi un varco enorme nei cuori di chi l'ascolta. E così vi potrebbe capitare di ascoltarlo sabato prossimo, di sfuggita magari, al Beat Cafè di San Salvo,come fosse uno dei vostri amici che suona in una band emergente. Eppure lui ha scritto un bel pezzo di storia del rinnovamento nella musica rock; ma si sà, il clamore mediatico circonda più spesso le cose mediocri che quelle notevoli.
Ad ogni modo non credo che a Geoff interessi più di tanto; infondo penso che a lui piaccia così, che abbia bisogno del contatto diretto con l'intimità dei locali, con la normalità della gente, per partorire le sue belle canzoni.
Dunque, dopo quasi dieci anni d'attesa possiamo goderci il suo ritorno alla chitarra elttrica e alla musica rock. Ed è un grande ritorno.
L'album degli Exit Verse non ha molto da spartire con i lavori dei Karate. Certo, si sente l'inconfondibile tocco di Geoff, si sente l'amore per un certo tipo di atmosfere da periferia suburbana, ma non troverete vezzose sferzate jazz, e nemmeno la carica rabbiosamente grunge dei primi dischi.
Ma avrete l'opportunità di apprezzare un lavoro solido, compatto, intelligente, e molto semplicemente: rock. E direi che oggi questa è una bell'ondata di freschezza. Niente tastiere, niente effetti, niente sovraincisioni, solo tre uomini che suonano rispettivamente la batteria, il basso e la chitarra, e che (cosa incredibile nella musica odierna) sembrano davvero divertirsi!
Il taglio di un bell'overdrive, una batteria "dritta" e costante, un basso denso e conturbante e il gioco è fatto. Gli Exit Verse riescono a far sembrare una sciocchezza quello che la maggior parte delle band si affatica invano a cercare per tutta la carriera: hanno un bel tiro, davvero un bel tiro. Tanto che viene voglia di mettere sù "Under The satellite", girare le chiavi della macchina, passare a prendere la tua ragazza (Addò vaglie senza Chiarett) e partire per un viaggio senza meta, giusto per il gusto di viaggiare, di sentire questa musica che ti abbraccia e tira avanti, che ti fa dimenticare, che ti fa battere la mano sul volante a ritmo di Rock and Blues.
(Possibilmente munirsi di macchina a metano!)
I tre ragazzi non si trastullano a mettere in mostra tutte le loro potenzialità, tirano solo un dannato groove trascinante che sembra durare all'infinito, o quantomeno per l'intera durata del disco. Farina mette giù poche note delle sue, che bastano a rendere il tutto più raffinato e smisuratamente al di sopra della media. Poi arriva "Seeds" e per un attimo sembra di risentire i Karate dei tempi d'oro, con quei ritmi sincopati e dannatamente innovativi nella loro disarmante frammentazione. Ma ti rendi subito conto che si tratta di una semplice impressione. Qui non c'è più nulla di celebrale ed estremamente ricercato, c'è solo la potenza scrosciante e irrefrenabile del miglior rock made in USA, con un tocco di malinconia e sensibilità prettamente europei.
"Pull out the Nails" piacerebbe pure a una quattordicenne invaghita dei One direction, e probabilmente anche a mia nonna Pasqualina che ama le tarantelle di paese. Ma come fa a non piacerti!!?? Senti quella voce così sciolta e densa allo stesso tempo, senti questo ritmo che ti chiama, senti questa chitarra che si divincola allegra tra la morsa incessante del charleston e del basso.
Senti i Power Chord di "Silver Stars" che ti accompagnano ad un ritornello che si apre in un canto sprizzante gioia e vitalità, salvo poi fermarsi nuovamente, lasciandoti con quel maledetto sapore d' amaro in bocca, che però stavolta è un pò meno amaro.
Si annusa anche qualche nota del John Mayer di Continuum in queste esaltanti cavalcate blues.
Ma Geoff, con tutto il rispetto del prodigioso John, è un'altra cosa per quelli come me.
Lui figo non lo è e non lo è stato mai. Non ha avuto relazioni con dive di Hollywood e dintorni, non ha i capelloni castani ondulati, anzi di capelli gliene sono rimasti piuttosto pochi. E non ha nemmeno la faccia rilassata e fresca di uno che ha ricevuto più sì che no nella vita.
Direi che ha lo sguardo di un ragazzo un pò cresciutello della periferia di Boston, che non ha mai avuto l'ambizione di conquistare il mondo con le sue canzoni.
Ha lo sguardo di uno che puoi tranquillamente incontrare al bar del tuo paese o del tuo quartiere, nascosto dietro una pinta di birra, pronto a tirarti fuori da un momento all'altro il segreto assoluto dell'esistenza.
E tu stai li fermo ad ascoltarlo con la bocca aperta e con gli occhi sgranati di chi non aspetta altro che una rivelzione.
E poi, quando arriva il momento cruciale e tu sei pronto per lasciarti folgorare dalla sola ed unica verità, quello stronzo ti guarda dritto dritto nelle palle degli occhi, ti mette una mano sulla spalla, tira giù un altro sorso di birra, ti rimette le palle degli occhi dritte nelle tue, e sorridendo sornione ti dice.... "Sai amico, non c'è nessun cazzo di segreto, ma se vuoi posso suonarti una bella canzone!"
E allora suonamela questa canzone stronzo di un saggio!
Sabato sera se non siete troppo distanti da San Salvo, potreste conoscerlo anche voi un tipo così, e magari ascoltare esterrefatti le sue rivelazioni sulla vita, o meglio, le vibrazioni della sua normalissima voce, le note della sua suadente chitarra, la semplicità (che forse rivela più d'ogni altra ricerca psico-filosofica) di queste sue canzoni.
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