Tra i vari album degli U2 "The Unforgettable fire" è quello che a mio parere rappresenta più di tutti gli altri l'anello di connessione tra gli esordi più marcatamente "New Wave" e il rock epico che venne dalla fine degli anni ottanta in poi.
Questo è il motivo per cui tale disco è stato da me completamente rivalutato, sino a rappresentare la nascita, e per certi versi anche la fine, del sound più autentico della band di Dublino.
Perchè? Cerchiamo di scoprirlo assieme.
Se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di ascoltare i primi tre album uduìani, quella che io ho deciso di chiamare "la trilogia del bambino", noterà un netto cambiamento già dalla prima traccia di questo nuovo lavoro: "A sort of homecoming" è un pezzo decisamente atipico nel panorama rock dell'epoca. Ritrae perfettamente lo stampo impressionistico dell'intero album: melodie che prendono il sopravvento su una struttura canzone solamente abbozzata, quasi a non voler essere troppo precisi, lasciarndo una sorta di interpretazione libera al pubblico. Il "furor" dell'artista pare surclassare la necessità di fermi canoni descrittivi, e così invece che un semplice strofa-ritornello ci ritroviamo ad ascoltare un inesorabile incedere che diventa sempre più appassionato e grandioso.
Si tratta del ritorno dei nostri ancor giovanissimi dublinesi verso le vie della loro Irlanda, alla propria intimità artistica, dopo aver esplorato soprattutto attraverso "War" un rock più muscolare e politico.
Ciò non sarebbe nemmeno lontanamente immaginabile senza l'apporto unico della chitarra di The edge, che assume qui quel ruolo cruciale che rappresenterà per tutta la musica degli anni ottanta. Più che di un chitarrista, il capelluto ragazzo della Mount Temple School prende le sembianze di un pittore che lancia pennellate di colore sulla tela fabbricata dal basso di Clayton e dalla batteria di Larry. Usa il riverbero, il delay, il chorus, semplici note piuttosto che accordi, ricamate tra loro tanto da costruire un perfetto intreccio.
Arriva "Pride" e pensi che si torna agli U2 dei vecchi tempi, quelli delle canzoni da tre, massimo quattro minuti, con uno sfondo fortemente radicato nell'attualità. E in effetti la canzone parla dell'omicidio di Martin Luther King e gli rende omaggio con un appassionato canto: Un uomo nel nome dell'amore. Ma gli stilemi non sono più quelli di un tempo, e alla rabbia punk (che pur rimane intatta nella voce di Bono sul ritornello) si è sostituita ormai una versione più universale del concetto canzone, decisamente più Pop. Un Pop colto e raffinato, ma pur sempre incisivo e diretto. Non è un caso se almeno fino al 1987 questo brano rappresenterà la hit di maggior successo per i quattro giovinetti della Northside. Un inno puro e semplice declinato in canto popolare accessibile a tutti. (Sia ben chiaro, niente a che vedere con il Pop scevro di oggi).
Ma se dovessi scegliere un pezzo che più di tutti rappresenta quest'album, un consiglio per l'ascolto diciamo, vi citerei senz'ombra di dubbio la folgorante "Bad".
Il tema dell'abuso di droghe e delle problematiche che ne possono discendere viene qui toccato più che con le parole, con la musica. La canzone parte con un semplicissimo fraseggio dell'"uomo col cappellino", che solo lui poteva riuscire a trasformare in un "must" per tutti gli appassionati di chitarra: un paio di accordi diventano l'apertura sinfonica, oseri dire, del brano. L'effetto "eco e ritardo" pensato da Edge la rendono unica, facendo apparire ciò che sarebbe banale esageratamente ricercato. E se credete che sia facile, provate a rifarlo!
La canzone prosegue poi in un continuo incessante incedere, in una scalata impervia verso l'alto, verso il divino, con cui Bono sembra voler dialogare con le sue debordanti ripetizioni nel finale. Non è un caso se nel Live Aid del 1985 la canzone arriva a durare oltre dieci minuti, togliendo spazio alla più famosa Pride, con un Paul Hewson scatenato ed il resto del gruppo che sta quasi per abbandonare il palco. Ma alla fine Bono fa cenno di chiudere il pezzo, e dalla platea arrivano applausi scroscianti: è la consacrazione definitiva degli U2 nell'Olimpo del rock, e da quel giorno Bad verrà suonata quasi sempre dal vivo come cavallo di battaglia.
Una cazone strana che rappresenta un album decisamente strano, ma intrigante. Dove si assapora la maestria "ambient" di Brian Eno (vedasi Promenade o 4th of july), ma anche la verve spirituale e allo stesso tempo viscerale dei giovani U2 (The unforgettable Fire, MLK).
I nostri ragazzi non dimenticano comunque da dove vengono e gli ideali che li hanno ispirati, regalando una nuova perla a Martin Luther King : MLK è un canto sognante, una vera e propria ninna nanna che chiude il disco in maniera soave, augurandosi che il reverendo al quale "hanno preso la vita, non potendo togliergli l'orgoglio" riposi finalmente in pace sotto una dolce pioggia autunnale.
E il fuoco indimenticabile altro non è che il fuoco della bomba atomica sganciata su Hiroshima, e che in quegli anni (1984-85) a causa della Guerra fredda si sarebbe potuto veder brillare nuovamente, con tutta probabilità. Gli U2 si schieravano dall'altra parte della barricata, con quelli che la guerra non la volevano, con chi stava con i più deboli.
E allora ecco che i quattro ragazzi fotografati davanti allo Slane Castle (dove è stato in parte registrato il disco) si avviano a diventare delle star mondiali, e non li ritroveremo mai più con questo mix di carica artistica e genuinità.
Faranno canzoni più belle, dischi più completi ed ispirati, ma mai più così poco a fuoco e quindi così da scoprire, come questo The Unforgettable Fire.