Siamo esseri complessi dotati di un'interiorità cui appartengono le nostre esperienze ed ogni sfaccettatura, anche quella apparentemente meno significante, della nostra esistenza. Eppure la stessa interiorità che ci permea, sempre più spesso senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, trascende in parte la nostra vita, investendo i legami che in qualche misura ci costituiscono, e i retaggi ambientali, culturali, sociali e dunque genetici che contribuiscono a strutturarci in quanto esseri viventi.
Ecco perché, ogni qual volta accenniamo con superficialità a quella indissolubile "identità" che racchiuderebbe la nostra essenza, applichiamo inevitabilmente una sorta di riduzionismo, una cesura forse indispensabile, ma pur sempre artificiosa e labile in alcune delle sue presunte componenti ed espressioni.
Ciò non autorizza a lasciarsi insidiare dalla facile conclusione che ogni essere umano sia privo di un'articolata sfaccettatura interiore strettamente correlata all'ambiente, al corpo e alle loro relazioni, come invece sempre più spesso si va sostenendo.
Il così detto "uomo modulare", che tanto dettagliatamente critica Miguel Benasayag, è divenuto l'ennesimo mitema nella storia dell'uomo, cui aspirare quale modello d'essere al mondo nei nostri tempi. "Costui" si presenta dunque come il singolo, o meglio il "profilo", costituito da moduli intercambiabili, privo di "interiorità, storia, esperienze. Egli ha, deve avere le qualità di un hard disk".
Ecco che si profilano due visioni agli antipodi, eppure così simili nei loro semplicistici approdi: da una parte l'essere umano è percepito come pura interiorità, un blocco unico insensibile ad ogni afflusso esterno; dall'altro, esso è completamente deprivato di ogni sostanzialità intrinseca, e rappresenta null'altro che una costruzione sulla quale apporre pezzi più "performanti" o detrarre quelli che si ritengono inutili se non dannosi.
Ma noi, come detto, siamo molto più di questo: più di un contenuto stipato in un contenitore, più di un ammasso d'informazioni ed esperienze; più di un blocco d'argilla in cui è soffiato un alito divino.
Quello che siamo non sono capace di spiegarmelo o di dirlo a parole, forse posso solo intuirlo e lasciarlo cadere.
Siamo parte d'un tutto, di questo sono certo: e in quanto parte non possiamo pretendere di farcela da soli, ponendoci al di sopra d'ogni altra cosa. Abbiamo il dovere di rispettare ciò che ci circonda, e rispettarlo non è facile come sembra.
Nell'epoca delle mode che banalizzano grandi temi del vivere, dell'esasperazione della forma che svuota il contenuto, è fin troppo comodo scambiare la potenziale parte di un percorso con un approdo.
Sono vegano-rispetto gli animali. Ho l'auto elettrica-non inquino. La lista potrebbe essere assai lunga, ma mi bastano due esempi per dimostrare che le cose sono più complesse di come ce le vogliamo rappresentare.
Recuperare il "senso del Sacro", inteso come ciò che è "aldilà" della nostra consapevolezza, appare essenziale. Equivale a riconoscere la nostra "finitezza" che, lungi dall'essere scusante di ogni nostro errore, ci responsabilizza.
Avere "senso del Sacro" vuol dire, inoltre, rendersi conto che esiste qualcosa che trascende i nostri limiti e allo stesso tempo li integra, qualcosa di più grande: e no, non sto parlando di un essere soprannaturale. Chi ha un figlio o ama una persona si rende ben conto di quello che voglio dire.
In definitiva, la nostra storia personale, per quanto rilevante e sensibilmente riconoscibile, non è che una minima parte di ciò che effettivamente siamo.
Nessun commento:
Posta un commento