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giovedì 24 gennaio 2019

Una via d'uscita

Ho cercato le risposte alle mie domande nelle pagine dei libri, nei consigli dei più saggi, tra le pieghe dell'esperienza diretta.
Non m'inganno di potermi astrarre totalmente dalle teorie filosofiche, teologiche, scientifiche,  ma è mio fermo proposito, in quest'occasione come nelle altre, parlare senza filtri e con la spontaneità che contraddistingue la relazione tra me, il mio corpo (mente compresa) e il mondo circostante: cos'è che non va? Perché, voglio dire, anche il più ottuso degli uomini, se in buona fede, si accorgerebbe che più di qualche cosa non funziona come dovrebbe nel nostro mondo.
Potrei rispondere dando adito ad infinite argomentazioni sulle più disparate tematiche del vivere, ma al di là del fatto che migliaia di esperti lo farebbero meglio di me, mi ero ripromesso di essere spontaneo e diretto. Allora parlerò come il "semplice" uomo che sono, tornando alla base dei miei ragionamenti di sempre: in generale credo che manchi la voglia di ascoltarsi e capirsi reciprocamente, nonché il tanto decantato "senso del dovere" che non ha mai sostituito lo spirito di sopravvivenza, prima, e quello di autodeterminazione della propria superiorità sugli altri, poi.
Conseguentemente è assente il senso civico, nulla più che una mera allucinazione in un sì fatto modo d'esistenza: civico, civiltà di cosa? Senza alcun "senso del dovere", dell'ascolto, della comprensione, della condivisione, della comunità, cos'è questo senso civico che ci rimane? Nient'altro che una farsa dietro la quale si nascondono gli ingenui sognatori (come me, fino a poco fa) e i falsi perbenisti.
Una via d'uscita? Una via d'uscita ci vuole, se non altro per continuare a camminare, a combattere. E non deve essere, non è, necessariamente un'utopia, un'entità ultraterrena in cui stipare le speranze di una futura redenzione. Una via d'uscita è il nostro compito qui e adesso, se non come obiettivo pienamente realizzabile, quantomeno come risultato cui tendere costantemente, con la forza di ogni singolo muscolo, movimento, pensiero.
Si rende dunque necessario, vitale oserei dire, tornare ad interrogarsi seriamente su questi temi, praticandoli nelle case e per le vie, insegnandoli nelle scuole, ma non come (troppo spesso avviene) vacuo intercalare con cui sciacquarsi amabilmente il volto, per poi calpestarlo sotto il peso della propria ipocrisia ed indifferenza.
Tutti siamo più o meno ipocriti ed indifferenti, è un fattore che non possiamo annullare. Ma ciò che davvero conta sono i milioni di piccoli passi che compiamo: messi insieme segnano un cammino, e anche se capita di zigzagare, di ripercorrere uno stesso tratto, ciò che alla fine rimane è la strada che abbiamo percorso, e il luogo in cui abbiamo deciso di lasciarci cadere.
Ancor meno bisogna incorrere nell'inciampo, storicamente ampiamente documentato, di trasformare una proposta, anche radicale, di cambiamento in un reazionario ritorno a stilemi e stimmate del passato, per di più elevati all'ennesima potenza.
I nostri più drammatici abbagli sono nati da questo non sempre sincero fraintendimento, ovvero dal confondere la tensione per il cambiamento, la rottura con uno stato contingente per pervenire ad uno nuovo e diverso, con la tensione per il ripiegamento acritico su posizioni reazionarie. Reagire non basta. Bisogna reagire per costruire, non solo per demolire.
Dai grandiosi ideali della rivoluzione francese questo cieco atteggiamento ha ridestato l'incondizionata violenza del terrore e dell'assolutismo; dagli inoppugnabili valori teorici di un certo socialismo lo stesso atteggiamento ha condotto alle aberrazioni del comunismo sovietico e cinese, per non parlare poi dei figli illegitimi di questi enormi stravolgimenti: il fascismo e il nazismo.
Il padre di tutti gli errori che hanno contribuito a suscitare queste immani tragedie storiche (e ve ne sarebbero molte altre da annoverare) è talmente banale ed attuale che si fa fatica ad accettarlo: la mancanza di ascolto, di attenzione, del tentativo di dare risposte, anche negative ma pur sempre risposte. Ascoltare non vuol dire accontentare, ascoltare vuol dire tributare attenzione al proprio interlocutore, riconoscere i suoi problemi, riconoscerlo, interessarsene. Gli intellettuali, gli uomini di governo e di "potere" non possono permettersi il lusso di lasciare inascoltate, di far cadere al suolo senza colpo ferire, le sofferenze di un popolo. Peggio degli indifferenti sono solo gli indifferenti arroganti e ipocriti, e purtroppo nelle pagine della nostra storia se ne contano molti.
Voglio ancora puntualizzare, per non incappare nell'errore di lasciarmi fraintendere. Ascoltare il popolo non equivale ad essere "populisti", realizzando ogni suo desiderio e mandando all'aria tutto il resto: questo è esattamente ciò che succede quando il popolo non lo si ascolta, quando arrivano i Mussolini, gli Stalin, gli Hitler, e chi vuol capire capisca. Ascoltare la gente vuol dire, intanto, impegnarsi seriamente per dare sollievo alle loro piaghe, e anche se questo dovesse richiedere anni o decenni, essere veri, sinceri, realisti. Dopodiché bisogna avere un comportamento consono e rispettoso degli altri: andare a raccontare in giro che tutto va bene, che esistono milioni di nuovi posti di lavoro, che le tasse sono diminuite, che la scuola è rinata, sghignazzando e ridendo a crepapelle, è esattamente il modo migliore di sdoganare la rabbia, l'indignazione, la reazione.
Ma come abbiamo ben visto, non tutte le reazioni sono positive.

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