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lunedì 29 dicembre 2014

Classifica migliori album 2014

Siamo ormai giunti alla fine di questo 2014, e come ogni buon blog di musica che si rispetti, mi sono cimentato nello stilare la mia personalissima classifica dei migliori dischi dell'anno, sperando che questa possa essere di consiglio a qualche ascoltatore.
L'unica premessa che vorrei fare è che ovviamente inserirò solo album che ho ascoltato e metabolizzato completamente, dovendo necessariamente tralasciare altri lavori dei quali ho sentito parlare benissimo, ma che purtroppo non ho ancora avuto modo di "analizzare" pienamente. D'altronde scrivo su questo blog per hobby, non essendo un critico musicale di mestiere.Dunque chiunque non fosse d'accordo  con questa classifica è libero di dirlo, e di aggiungere quelli che ritiene siano i migliori lavori pubblicati negli ultimi 365 giorni. A voi i miei preferiti:

6- This is all yours, Alt-j. Questo è l'ultimo che ho ascoltato in ordine di tempo, ed entra di diritto nella top six per la ricercatezza dei suoni e dei cori, per l'originalità degli Alt-j che rimane intatta dopo il meraviglioso "An awesome wave" (e non era cosa facile). Un lavoro ermetico, leggermente meno diretto rispetto al precednte, ma che va ascoltato tutto d'un fiato, e regala splendide suggestioni già dal primo ascolto, per poi diventare nelle successive ripetizioni un piccolo gioiello imprescindibile.

5- Present Tense, Wild Beasts. Sulla falsariga degli Alt-j, i Wild Beasts è possibile incontrarli sul binario della sperimentazione, che qui è però ancor più orientata verso l'elettronica. Falsetti e voci baritonali sovrapposte e talvolta contrapposte, sintetizzatori utilizzati in maniera sapiente e mai banale, e qualche melodia da far mozzare il fiato anche al peggior scettico.Ascoltare Mecca per credere. Quinto posto decisamente meritato.

4-Il padrone della festa, Fabi, Silvestri, Gazzè. Non potevo lasciare da parte il panorama musicale nostrano che quest'anno ci ha riservato una squisita sorpresa: tre dei nostri migliori cantautori si sono uniti per dar vita ad un disco dalle atmosfere nostalgiche, di ampio respiro, ispiratrato nei testi quanto nelle melodie, cantato dannatamente bene, e per giunta registrato ancor meglio. Da far venire l'acquolina in bocca ad un audiofilo incallito!

3-Songs of innocence, U2.  Dopo quasi quarant'anni di onorata carriera, è già un miracolo se una band è ancora unita, se fa ancora tour, figurarsi se riesce a creare undici canzoni coese ed ispirate. Questo è esattamente quello che è successo con questo ottimo album, raccordato con gli albori del gruppo, ma completamente immerso (specie musicalmente) nel presente. Grazie anche al lavoro di produzione di Danger Mouse e dei tanti colleghi, il disco è un connubio di mestiere rock e freschezza pop, rivelandosi il migliore realizzato dagli irlandesi dal controverso e potente "Pop". I Fasti del passato rimangono lì, ma nel presente gli U2 riescono ancora a dire la loro, battendosela tranquillamente con i migliori gruppi del momento.

2- Morning Phase, Beck. Il folletto Beck torna a stupirci con un'opera degna del suo nome, che mixa perfettamente le tre anime del cantautore: quella più sperimentale, tesa a pochi ma giusti tocchi elettronici, quella più intimista, tutta concentrata in linee armoniche semplici e basate fondamentalmente su strumenti acustici, e quella orchestrale riconoscibile nelle cruciali sfumature di quasi tutte le canzoni. Il tutto è completato dai suoi testi brillanti e profondi, e da un lirismo mai esagerato, che non fa una piega.

1-Lost in The dream, The war on drugs. La palma d'oro di disco più bello dell'anno, stavolta se l'aggiudicano (per quanto mi riguarda) The war on drugs, progenitori di un disco sulfureo, notturno, sognante, ai limiti del mistico se me lo permette. Sentito dalla prima all'ultima traccia lascia l'ascoltatore inebriato e sazio di un viaggio non solo musicale, ma fatto per lo più di atmosfere magiche e suggestive, inglobate perfettamente nel complesso di un panorama indefinito. Come affacciarsi da un promontorio, e vedere una valle pianeggiante al culmine della quale l'occhio non riesce più a distinguere tra cielo e terra. Certi dischi vanno ascoltati con attenzione, anche solo per vivere un'esperienza appagante per la nostra anima.



lunedì 22 dicembre 2014

SUSHAFIRE AL COMPLEANNO DI DANIELE: Le foto



Ieri sera si è tenuto il compleanno del nostro amico Daniele Leonardi. E noi SushaFire siamo stati chiamati ad animare la serata, e dunque ad esibirci col nostro repertorio.
Innanzitutto mi preme ringraziare Francesco, Daniele e tutta la famiglia per aver pensato a noi, che speriamo di aver ricambiato dando il massimo, e cercando di divertirci e far divertire.
Di certo la festa è andata benissimo, con grande divertimento degli invitati, e con uno strepitoso coinvolgimento nel  finale di serata da parte di tutti i ragazzi, che avvicinatisi alla nostra band, hanno condiviso assieme a noi le strepitose improvvisazioni di Giorgio, Salvatore e Jp, i quali attraversando il rock, la dance, la musica popolare, il reagge, e il funcky hanno accontentato praticamente tutti!
Dunque cos'altro aggiungere... un'altra esperienza positiva per i SushaFire, una splendida serata condivisa con gli amici.
Un abbraccio ed un ringraziamento a tutti, e aspettando di rivederci molto presto, non dimenticate di continuare a soffiare su questo fuoco, affinchè continui a rimanere acceso!

Di seguito alcuni scatti della serata.









sabato 13 dicembre 2014

Recensione: U2, "Boy"







Quando gli U2 non erano ancora gli U2, c'erano solo quattro ragazzetti capelloni e un pò "sfigatelli" che vivevano nella periferia di una delle città più roventi in quegli anni: Dublino.
Girare per le strade era pericoloso, poichè le tensioni interne tra l'IRA e i rappresentanti per i diritti civili erano altissime.
Non c'erano ancora mega tour iper-pubblicizzati ed oltremodo costosi, non c'erano i famosi occhiali da sole di Bono, sul capo del buon Edge non troneggiava il mitico cappellino di lana, ma una folta chioma di lunghi capelli castani; Larry non aveva ancora il fisico da palestrato nè lo sguardo da duro, ma un dolce visetto da bimbo, colmo di speranze e paure; e in quanto ad Adam, bè... lui sembrava appena tornato da un lungo viaggio in Afghanistan, con dietro un grosso carico di Kefieh e Narghilè.
I diciasettenni "Feedback"(così s'erano chiamati sino ad allora) provavano tra cucine e garage, e durante uno dei loro primi concerti chiesero al pubblico di scegliere tra due nuovi nomi: The Hype, e quello strano nomignolo consigliatoli da un loro caro amico, ed ispirato ad un aereo spia americano: U2.
Quello che scelsero i ragazzi che li ascoltavano, è ormai storia.
Un paio di anni dopo i quattro dublinesi ebbero l'opportunità di registrare il loro primo LP, un disco dalla copertina grigia e sfocata, con la foto di un bambino ancora innocente: Boy. Quale titolo migliore per l'album d'esordio di quattro individui che fondamntalmente erano ancora degli adolescenti?
Le linee di basso di Clayton sono essenziali, ma estremamente ficcanti, d'altronde suona quello strumento giusto dal tempo necessario per estrapolarne le basi.
Bono cerca ancora la sua voce, ma ci mette dentro una carica assurda, la rabbia di un quattodicenne che ha perso la madre troppo presto, e il carisma che l'ha sempre contraddistinto.
Mullen e the Edge sono gli unici a sapere davvero quello che stanno facendo; il primo è una vera e propria forza della natura, suona con una grinta e quella disinvoltura tipica di chi è nato per fare quella cosa e basta.
Il secondo non ha grande istintività, una tecnica ancora in elaborazione, ma ha tutto quello che serve ad un grande chitarrista degli anni 80': la creatività e il sentimento.
Queste poche, ma essenziali doti si riversano già nella prima traccia del disco, la storica I will follow, dedicata proprio alla madre di Paul Hewson, che si apre con il riff martellante di the Edge sovrapposto ad uno Xilofono che crea un'atmosfera straniante per il rock consueto, e ci trascina in pieno ambiente New Wave.
Post punk, New wave, e Punk-rock sono i tre generi che ritroviamo nettamente all'interno degli undici brani.
Twilight è una dimostrazione di come queste fonti d'ispirazione si fondano alla perfezione all'interno del sound "uduiano", richiamando al nostro orecchio gruppi quali Joy Division, Siouxsie and The Banshees, ma anche Clash.
An Cat dubh ci mostra il lato più "dark" della band, con il basso di Clayton che prende il sopravvento, accompagnandoci alla successiva Into the Hearth. Entrambe le canzoni fanno parte della stessa suite, ma la seconda ha addirittura un certo accento prog-rock, ed un cantato più gioviale, ma non meno melanconico.
Due parole a parte le merita il primo singolo, Out of control, dove incontriamo le influenze più apertamente punk, quelle dei Ramones per intenderci. Il pezzo è incredibilmente trascinante, e ci dimostra come la batteria di Larry sia fondamentale nell'economia sonora del gruppo, quasi quanto la splendida chitarra del buon Dave Evans, qui più squillante che mai con l sua Gibson Explorer. Ma soprattutto ci ricorda che questi quattro giovani sono animali da palcoscenico; la loro comunicatività è l'arma fondamentale.
Sullo stesso binario prosegue Stories for boys, dalla quale esce ancora una volta trionfante il ritmo indomabile delle percussioni, e la voce potente di Bono.
The Ocean è forse il brano più riflessivo dell'intero album, fortemente New Wave, con leggere contaminazioni di suoni elettronici, specie nel finale.
A day without me è invece una canzone tutta basata su un tipico ritmo anni 80' ed una melodia decisamente virante verso un fresco pop, sebbene il testo riguardante l'idea del suicido in età giovanile e dedicato in particolare a Ian Curtis (che da poco s'era tolto la vita), sia tutt'altro che spensierato.
Another Time, another place lascia spazio ai tipici cori di Edge e Bono che ci accompagneranno per tutta la prima parte della loro carriera, e ancora una volta alle poche, ingegnose, taglienti, spiazzanti note della chitarra. La voglia di trovarsi in un altro posto e in un altro luogo, tipica dei giovani, raccontata dai giovani ma con una maturità insolita, e con una chitarra che talvolta ricorda più i rintocchi di una campana d'un enorme cattedrale. Una canzone struggente.
The electric Co. tocca il tema dei disagi psichici, e di come fossero maltrattati coloro che ne soffrivano all'epoca, costretti a sopportare la brutalità dei manicomi, talvolta dell'eletroshock, finendo così coll'aggravare ulterirmente la propria salute mentale.Il pezzo è ancora oggi un classico nei concerti del gruppo, tant'è forte la sua carica emotiva.
Chiude questo splendido album d'esordio l'unica (se così la si può definire) ballata: Shadows and tall trees.
Ballata atipica poichè basata sui colpi di rullante della battertia, ma unico pezzo che mette in risalto una chitarra acustica ancora poco usata dal buon Edge. Il cantato ha qualcosa di poetico e conturbante, che lascia l'amaro in bocca.
I giovani U2 hanno appena finito di raccontarci la propria innocenza, e già la stanno perdendo. Stanno diventando degli uomini, e di qui a poco, saranno star internazionali.
Mai nella storia della musica, o almeno di quella rock, era stato fatto un racconto così lucido su cosa volesse dire avere 18 anni, le paure, le speranze, la rabbia di un'età tra le più difficili, di certo quella che si ricorda per sempre con maggiore nostalgia.
Perdere l'innocenza, questo è il tema centrale del disco.
Una tematica incredibilmente nuova  nell'immaginario rock, contraddistinto sino ad allora soprattutto da temi come il sesso, la droga, o paradossalmente da argomenti "troppo pesanti" per inglobare compiutamente i sentimenti di intere generazioni, che lungo il cammino di differenti e lontanissime epoche hanno sempre tentato di sembrare più grandi, di diventare presto adulti, per riscoprirsi poi cresciuti troppo in fretta, ed accorgersi in fine di quale immensa poesia volesse dire essere dei "semplici" ragazzi.

mercoledì 10 dicembre 2014

Dove l'elettronica e il Pop s'incontrano a meraviglia... A voi, i Future islands!

A me il buon Pop, quello di qualità, quello che parla alla mente e all'anima, attraverso il talento, è sempre piaciuto.
Non sono fra chi, per partito preso, scarta un genere poichè ritenuto troppo "di massa".
Ecco perchè ho pensato fosse giusto segnalarvi quest'ottima band.
Una band che miscela all'interno delle sue trame sonore generi completamente diversi tra loro, ma che grazie alla bravura dei suoi componenti e ad un suono ricercato ma semplice, si tengono a meraviglia.
Aggiungete poi la versatilità e la comunicatività di una voce come quella del cantante Samuel T. Herring, e le sue (non si sa quanto volute) goffe ma simpatiche movenze, e la magia è presto fatta.
Dal loro ultimo lavoro Singles, la "commercialissima" Season....
Questi sono i Future Islands, l'esempio di come il Pop possa non essere banale!


mercoledì 26 novembre 2014

Recensione: The Zen Circus, "Nati per subire"




Dopo aver "campato di rendita" durante le mie precedenti recensioni, avendole stese ormai tempo addietro, eccomi tornare alla "scrittura in diretta", e mi piace farlo parlando del piacevole album dei giovani ma ormai esperti Zen circus: Nati per subire.
Il titolo evoca decisamente le tematiche che si affronteranno nel corso dell'ascolto, dal satirico ritratto squisitamente italico de Il paese che sembra una scarpa, alle sferzanti invettive anti-ecclesiastiche de L'amorale, sino ad arrivare alla totale contestazione dell'attuale modus vivendi nella traccia che presta il titolo al disco, quella Nati per subire che sembra un inno all'antieroismo.
E come ogni antieroe che si rispetti, i nostri Appino & co.guarniscono la loro opera con un'inconsueto mix musicale che associa il punkrock britannico al folk nostrano, con qualche pizzico di buon cantautorato.
Si sente qualche non troppo vago richiamo al De Andrè più "politico", anche nell'impostazione della voce del frontman. Tutto sommato ciò non può che far bene alla musica nostrana, sin troppo inmelmata in futili litanie pseudo-amorose.
Detto questo, la qualità di registrazione del disco, la freschezza del suono, l'energia del gruppo, e alcuni ottimi spunti di scittura, ne fanno un lavoro encomiabile.
L'unica critica che posso permettermi di fare, è quella relativa al superficiale utilizzo (talvolta) di un linguaggio piuttosto scurrile. Non perchè ci sia qualcosa di moralmente scorretto in questo (basti pensare che sono un fan sfegatato degli storici Squallor), ma semplicemente perchè questa modalità comunicativà sembra più adatta, in questo caso, ad adolescenti incazzati, piuttosto che ad autori maturi, quale il nostro Appino dovrebbe e ha dimostrato di essere in tante canzoni, non ultime quelle del suo lavoro solista Testamento.
Ciò non toglie all'interno dell'album una profondità narrante inconsueta, e soprattutto la volontà di sviscerare amare verità.
Il basso ed una batteria perfettamente incatenati fanno da tappeto ai riff chitarristici del cantante, con melodie sempre orecchiabili, sempre azzecate, che rimangono in testa già dal primo ascolto, senza apparire scontate.
Talvolta scanzonato, l'album ci trasporta con leggerezza attraverso la rappresentazione di alcuni dei problemi più pungenti dell'attualità, rischiando di cadere nel qualunquismo (la quinta traccia s' intitola proprio I qualunquisti), ma senza farlo mai per davvero.
Un bel manifesto della rabbia dei trentenni nostrani. Affamati di una fame insaziabile, la fame di costruirsi un futuro sereno in un momento storico in cui questo appare un debole, fioco, utopistico miraggio.
Sebbene (ma forse ancora per poco) come dice Appino "l'ultimo dei tuoi problemi è trovare da mangiare".

                                                                                                                                       Voto: 7/10

lunedì 17 novembre 2014

Recensione: John Grant, "Queen of Denmark"



John Grant: “Queen of Denmark”




Ci sono due motivi che mi hanno spinto a parlare di quest’album. Il primo è che scommetto che quasi nessuno di voi ha mai sentito parlare di John Grant, ex cantante degli Czars.
Il secondo è che Marz, Where dreams go to die e Queen of Denmark sono tra le ballate più belle che io abbia ascoltato negli ultimi anni.
Non voglio essere ridondante proponendovi l’esegesi di ogni singola canzone. Vi dico solo che la storia personale di Grant si riversa in questo lavoro, conferendogli un valore aggiunto.
La storia di un omosessuale che ha contratto l’HIV e che cerca il riscatto da una situazione difficoltosa e da una società bigotta. E lo fa senza discernere il sacro dal profano, alternando tematiche e sonorità più cupe a composizioni che starebbero benissimo nelle rotazioni di una radio che si possa definire decente.
Struggente, sognante, adirato, poetico, pessimista, inebriante, acustico ma con sapienti sfumature d’elettronica, controverso, solitario, intenso, commovente.
Sono solo alcuni degli aggettivi spendibili dopo aver ascoltato queste dodici tracce.
“Volevo cambiare il mondo, ma non riuscivo nemmeno a cambiarmi le mutande. E quando la situazione peggiorò senza controllo, ne avevo fino all’attaccatura dei capelli, che sta indietreggiando come la mia autostima./ Non so cosa volere da questo mondo, non so davvero cosa volere da questo mondo, non hai alcun diritto di esigere qualcosa da me. Perché non te la prendi con qualcun altro? Perché non dici a qualcun altro che è egoista, codardo, piagnone e patetico? E chi è che mi salverà da me stesso?” (Queen of Denmark).
Non fatevi spaventare dallo sguardo cupo sulla copertina.
Lasciatevi irretire dalla regina di Danimarca.
                                                 Voto:7.5/10

venerdì 14 novembre 2014

Recensione: Noah and the Whale: "The first days of springs"



Noah and the Whale: “The first days of spring”




Il folk rock dei Noah and the Whale non ha mai più raggiunto (fino ad ora) vette così alte come in questo caso.
Un album crepuscolare che ha il merito di aver fuso al suo interno la freschezza del primo indie, e l’intimità propria di una certa musica folk, soul e blues.
L’uso di strumenti tipici richiama nettamente la più antica tradizione musicale celtica.
Charlie Fink ha una voce incredibilmente profonda e usa questa caratteristica per toccare le note più basse della nostra anima, riuscendoci meravigliosamente.
Il tutto è adagiato su un ricamo melodico sopraffino, fatto di poche note cariche di significati.
Ricordo nitidamente il momento in cui scovai questo gioiellino. Era un tipico giorno autunnale, freddo e piovoso, che rispecchiava il mio stato d’animo.
Non avevo nulla da fare, e così decisi di ascoltare un po’ di nuova musica per tirarmi su di morale.
Cercavo qualcosa di simpatico e leggero, quando mi ricordai che un ragazzo mi aveva parlato di questo gruppo, il cui nome era stato ispirato dal film di Noah Baumbach “The Squid and The Whale”.
Certo, non era propriamente musica leggera, ma mi scaldò il cuore e mi fece star meglio, regalandomi uno strano sentimento di empatia. Corsi al mio negozio di fiducia per acquistarlo.
Mai scelta fu più azzeccata.
Mojo: ”Breathtaking”. Sunday Times: “A masterpiece”. Q Magazine: “Magical”.
Per una volta anche le riviste dei critici erano tutte d’accordo sulla squisitezza di The first days of spring.
Adoro l’immagine di copertina di quest’album, le sue melodie blande, la tristezza di Blue skies.
“This is the song for anyone with a broken heart”.
E se a qualcuno di voi è mai capitato di aver sentito il proprio cuore infranto, gli consiglio sinceramente di bersi quest’album in un sol respiro.
Non esiste medicina migliore.

                                                          Voto: 8/10

mercoledì 12 novembre 2014

Recensione: Joy Division, "Unknown pleasures"



Joy Division: “Unknown Pleasures”



Tra il Krautrock e le ultime reminescenze del Punk originario, alla fine degli anni 70’ si fece largo una nuova via: molti la chiamavano Post-Punk.
Ricco d’influenze New Wave, questo nuovo genere fu la panacea della musica rock.
Suoi tratti distintivi erano arrangiamenti poveri, testi forti, linee di basso predominanti, penuria di lunghi soli chitarristici tipici dell’Hard rock.
I Joy Divison furono tra i precursori di questo nuovo corso, e i capostipiti di quello che oggi definiamo Gothic rock.
Per intenderci gruppi come The Cure, Bauhaus, Sister of Mercy e via dicendo, non sarebbero nemmeno esistiti senza Ian Curtis & co.
Come si parla di un’opera d’arte?
Io non lo so, non ho la giusta dimestichezza con le parole per farlo in maniera decente.
A me hanno sempre un po’ annoiato quei critici che cercano di descrivere un’opera d’arte sezionandola in pezzi. Tra l’altro basterebbe andare su internet e digitare Unknown Pleasures per individuare una recensione infinitamente più precisa e accurata della mia.
Allora ho deciso di far parlare i miei ricordi, i miei pensieri e le mie suggestioni per dipingere un quadro degno di quest’album.
D’altra parte siamo quasi arrivati alla fine di questa mia appassionata divagazione, e un po’ di campanilismo musicale e ideale me lo concederete, spero.
Uno dei primi libri che io abbia davvero letto nella mia adolescenza si chiamava “Bono on Bono”, una serie di conversazioni tenute dal giornalista francese Michka Assayas con il frontman degli U2 Paul David Hewson.
In questo libro si parlava un po’ di tutto, dalla politica all’attivismo, dalla vita privata alla musica.
Mentre citava alcuni degli artisti che lo avevano ispirato, Bono accennò a una canzone tratta dal loro primo album A day without me, dedicata ad un certo Ian Curtis, cantante dei Joy Division.
Andai subito a cercare informazioni in rete.
Il primo ascolto fu una specie di pugno nello stomaco. Un colpo benevolo ovviamente, che mi aprì tutta una serie di orizzonti per me ancora inesplorati.
Quella voce così triste ed espressiva e l’atmosfera pesante che si respirava nei loro pezzi mi toccarono nel profondo.
Ian Curtis è il “Deus ex machina” dei Joy Division.
Parlo di un ragazzo che a soli vent’anni è stato capace di scrivere alcune tra le liriche più belle del rock.
Durante i concerti spesso simulava gli attacchi d’epilessia dai quali era attanagliato, che lo portarono a soffrire di depressione e dunque, alla giovanissima età di ventitré anni, a togliersi la vita.
I suoi occhi chiari erano così penetranti ed intensi.
Mi faceva letteralmente sobbalzare (e lo fa tuttora) il basso prepotente che s’insinuava nelle mie orecchie dall'incipit Disorder. Impazzivo per quelle chitarre scintillanti con soli su un’unica corda così semplici che potevo suonarli persino io, per il ritmo estenuante della batteria, per Ian che urlava a ripetizione “I’ve got the spirit, but lose the feeling. Feeling, feeling, feeling, feeling, feeling!”.
Sarò netto: questo è un album dalle tinte tetre, pessimista, arrabbiato, ma non è assolutamente un lavoro pesante.
Questo è il motivo per cui l’ho sempre preferito al successivo Closer, perché nonostante la sua vena declinante Unknown Pleasures si fa ascoltare dalla prima all’ultima traccia con una gradevolezza unica.
Riesce a trasmetterci la frustrazione, l’alienazione, l’inquietudine dei suoi autori senza diventare monotono.
Non mancano all’interno del disco piacevoli sprazzi di elettronica, il più delle volte completamente assorbiti dal generale suono scarno ed elettrico.
In questo senso Insight non fa testo, poiché nel bel mezzo della canzone sembra di ritrovarsi coinvolti in una battaglia cosmica piena di suoni laser o qualcosa di simile. Il testo ci lascia attoniti: “Indovina, i tuoi sogni finiscono sempre. Non crescono, discendono e basta. Ma non mi importa ormai, ho perso la voglia di volere di più. Non ho paura dopo tutto. Li guardo cadere. Ma possiamo ricordare quando eravamo giovani.”.
Detto da uno che ha ancora vent’anni fa venire i brividi.
Anch’io mi sono sempre sentito un po’ più vecchio di quello che sono.
Non vi allarmate, non ho alcuna intenzione di fare il depresso e vivere fuori dal mondo! (O magari a qualcuno di voi piacerebbe, chi lo sa!)
Quello che voglio dire è che c’è una certa predilezione, in alcuni individui, a sentirsi un po’ più volubili e fragili rispetto agli altri, e questo a prescindere dalle malattie e dai veri problemi della vita. Anzi, a volte i veri problemi ti distraggono da quelli falsi che ti crei tu. Io ne so qualcosa.
(Intendo complicazioni quotidiane aspre ma risolvibili, non certo quelle che aveva Ian.)
In breve, amo questi artisti perché una parte di me si rivede in alcune delle loro problematiche.
Amo questo disco, perché tra quelli dei Joy Division è l’album che mi somiglia di più: malinconico sì, ma anche grato e felice per la vita che ho e per la gente che mi circonda, cui tengo molto.
Forse a voi non sembrerà così positivo questo disco, e infatti non lo è. Ma provate ad ascoltare quello che hanno scritto e suonato i nostri quattro in seguito, e sono certo che anche a voi parrà di riscontrare nel complesso una via d’uscita, una non definitiva resa al nulla.
Schopenhauer e Nietzsche sono tra i miei filosofi preferiti. I Joy Division sono stati parzialmente degli eredi del loro pensiero, forse senza nemmeno saperlo.
Io sapendolo gli ho infinitamente stimati. Perché mi è sempre parso di avere un carattere piuttosto incompatibile con le convenzioni che la società in cui vivo mi obbligherebbe ad assumere.
Assieme a Ian Curtis e compagni ho imparato quanto possa essere difficile la vita.
Da solo ho capito che le cose che contano, per le quali vale senza dubbio la pena combattere le ostilità dell’esistenza e vivere pienamente, sono quelle più semplici.
Non le grandi imprese, la ricchezza, la perfezione.
Vedere mio fratello che si comporta come me alla sua età, chiacchierare per ore con la mia famiglia tutta riunita sul divano, scherzare fino a tarda notte con gli amici, sentirmi soddisfatto per essermi impegnato al massimo in qualcosa, nello scrivere queste pagine per esempio; guardare un film di Troisi e vedermi un po’ meno sfigato, abbracciare la persona migliore che conosco ed avere il privilegio di amarla e di essere ricambiato.
Le piccole cose diventano grandi, enormi, immense.
Ma per poterle apprezzare davvero bisogna conoscerne il valore.
E questo valore lo si apprende anche e soprattutto grazie alla sofferenza a volte insita nei nostri cuori.
Dallo scontro-incontro nasce la vita, dal dolore-amore si impara ad apprezzare ogni suo aspetto, anche quello che ci appare più insignificante.
Ringrazio i joy Division per avermi accompagnato all’imbocco di questo frastagliato tragitto.


Voto: 9.5/10