Joy Division:
“Unknown Pleasures”
Tra il Krautrock e le
ultime reminescenze del Punk originario, alla fine degli anni 70’ si fece largo
una nuova via: molti la chiamavano Post-Punk.
Ricco d’influenze New
Wave, questo nuovo genere fu la panacea della musica rock.
Suoi tratti distintivi
erano arrangiamenti poveri, testi forti, linee di basso predominanti, penuria
di lunghi soli chitarristici tipici dell’Hard rock.
I Joy Divison furono
tra i precursori di questo nuovo corso, e i capostipiti di quello che oggi
definiamo Gothic rock.
Per intenderci gruppi
come The Cure, Bauhaus, Sister of Mercy e via dicendo, non sarebbero nemmeno
esistiti senza Ian Curtis & co.
Come si parla di
un’opera d’arte?
Io non lo so, non ho
la giusta dimestichezza con le parole per farlo in maniera decente.
A me hanno sempre un
po’ annoiato quei critici che cercano di descrivere un’opera d’arte
sezionandola in pezzi. Tra l’altro basterebbe andare su internet e digitare Unknown Pleasures per individuare una
recensione infinitamente più precisa e accurata della mia.
Allora ho deciso di
far parlare i miei ricordi, i miei pensieri e le mie suggestioni per dipingere
un quadro degno di quest’album.
D’altra parte siamo
quasi arrivati alla fine di questa mia appassionata divagazione, e un po’ di
campanilismo musicale e ideale me lo concederete, spero.
Uno dei primi libri
che io abbia davvero letto nella mia adolescenza si chiamava “Bono on Bono”,
una serie di conversazioni tenute dal giornalista francese Michka Assayas con
il frontman degli U2 Paul David Hewson.
In questo libro si
parlava un po’ di tutto, dalla politica all’attivismo, dalla vita privata alla
musica.
Mentre citava alcuni
degli artisti che lo avevano ispirato, Bono accennò a una canzone tratta dal
loro primo album A day without me, dedicata ad un certo Ian Curtis, cantante dei
Joy Division.
Andai subito a cercare
informazioni in rete.
Il primo ascolto fu
una specie di pugno nello stomaco. Un colpo benevolo ovviamente, che mi aprì
tutta una serie di orizzonti per me ancora inesplorati.
Quella voce così
triste ed espressiva e l’atmosfera pesante che si respirava nei loro pezzi mi toccarono
nel profondo.
Ian Curtis è il “Deus
ex machina” dei Joy Division.
Parlo di un ragazzo
che a soli vent’anni è stato capace di scrivere alcune tra le liriche più belle
del rock.
Durante i concerti
spesso simulava gli attacchi d’epilessia dai quali era attanagliato, che lo
portarono a soffrire di depressione e dunque, alla giovanissima età di ventitré
anni, a togliersi la vita.
I suoi occhi chiari erano
così penetranti ed intensi.
Mi faceva letteralmente
sobbalzare (e lo fa tuttora) il basso prepotente che s’insinuava nelle mie
orecchie dall'incipit Disorder. Impazzivo per quelle chitarre
scintillanti con soli su un’unica corda così semplici che potevo suonarli
persino io, per il ritmo estenuante della batteria, per Ian che urlava a
ripetizione “I’ve got the spirit, but lose the feeling. Feeling, feeling,
feeling, feeling, feeling!”.
Sarò netto: questo è
un album dalle tinte tetre, pessimista, arrabbiato, ma non è assolutamente un
lavoro pesante.
Questo è il motivo per
cui l’ho sempre preferito al successivo Closer,
perché nonostante la sua vena declinante Unknown
Pleasures si fa ascoltare dalla prima all’ultima traccia con una gradevolezza
unica.
Riesce a trasmetterci
la frustrazione, l’alienazione, l’inquietudine dei suoi autori senza diventare
monotono.
Non mancano
all’interno del disco piacevoli sprazzi di elettronica, il più delle volte
completamente assorbiti dal generale suono scarno ed elettrico.
In questo senso Insight
non fa testo, poiché nel bel mezzo della canzone sembra di ritrovarsi coinvolti
in una battaglia cosmica piena di suoni laser o qualcosa di simile. Il testo ci
lascia attoniti: “Indovina, i tuoi sogni finiscono sempre. Non crescono,
discendono e basta. Ma non mi importa ormai, ho perso la voglia di volere di
più. Non ho paura dopo tutto. Li guardo cadere. Ma possiamo ricordare quando
eravamo giovani.”.
Detto da uno che ha
ancora vent’anni fa venire i brividi.
Anch’io mi sono sempre
sentito un po’ più vecchio di quello che sono.
Non vi allarmate, non
ho alcuna intenzione di fare il depresso e vivere fuori dal mondo! (O magari a
qualcuno di voi piacerebbe, chi lo sa!)
Quello che voglio dire
è che c’è una certa predilezione, in alcuni individui, a sentirsi un po’ più
volubili e fragili rispetto agli altri, e questo a prescindere dalle malattie e
dai veri problemi della vita. Anzi, a volte i veri problemi ti distraggono da
quelli falsi che ti crei tu. Io ne so qualcosa.
(Intendo complicazioni
quotidiane aspre ma risolvibili, non certo quelle che aveva Ian.)
In breve, amo questi
artisti perché una parte di me si rivede in alcune delle loro problematiche.
Amo questo disco,
perché tra quelli dei Joy Division è l’album che mi somiglia di più:
malinconico sì, ma anche grato e felice per la vita che ho e per la gente che
mi circonda, cui tengo molto.
Forse a voi non
sembrerà così positivo questo disco, e infatti non lo è. Ma provate ad
ascoltare quello che hanno scritto e suonato i nostri quattro in seguito, e
sono certo che anche a voi parrà di riscontrare nel complesso una via d’uscita,
una non definitiva resa al nulla.
Schopenhauer e
Nietzsche sono tra i miei filosofi preferiti. I Joy Division sono stati
parzialmente degli eredi del loro pensiero, forse senza nemmeno saperlo.
Io sapendolo gli ho
infinitamente stimati. Perché mi è sempre parso di avere un carattere piuttosto
incompatibile con le convenzioni che la società in cui vivo mi obbligherebbe ad
assumere.
Assieme a Ian Curtis e
compagni ho imparato quanto possa essere difficile la vita.
Da solo ho capito che
le cose che contano, per le quali vale senza dubbio la pena combattere le
ostilità dell’esistenza e vivere pienamente, sono quelle più semplici.
Non le grandi imprese,
la ricchezza, la perfezione.
Vedere mio fratello
che si comporta come me alla sua età, chiacchierare per ore con la mia famiglia
tutta riunita sul divano, scherzare fino a tarda notte con gli amici, sentirmi
soddisfatto per essermi impegnato al massimo in qualcosa, nello scrivere queste
pagine per esempio; guardare un film di Troisi e vedermi un po’ meno sfigato, abbracciare
la persona migliore che conosco ed avere il privilegio di amarla e di essere
ricambiato.
Le piccole cose
diventano grandi, enormi, immense.
Ma per poterle
apprezzare davvero bisogna conoscerne il valore.
E questo valore lo si
apprende anche e soprattutto grazie alla sofferenza a volte insita nei nostri
cuori.
Dallo scontro-incontro
nasce la vita, dal dolore-amore si impara ad apprezzare ogni suo aspetto, anche
quello che ci appare più insignificante.
Ringrazio i joy
Division per avermi accompagnato all’imbocco di questo frastagliato tragitto.
Voto: 9.5/10
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