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mercoledì 12 novembre 2014

Recensione: Joy Division, "Unknown pleasures"



Joy Division: “Unknown Pleasures”



Tra il Krautrock e le ultime reminescenze del Punk originario, alla fine degli anni 70’ si fece largo una nuova via: molti la chiamavano Post-Punk.
Ricco d’influenze New Wave, questo nuovo genere fu la panacea della musica rock.
Suoi tratti distintivi erano arrangiamenti poveri, testi forti, linee di basso predominanti, penuria di lunghi soli chitarristici tipici dell’Hard rock.
I Joy Divison furono tra i precursori di questo nuovo corso, e i capostipiti di quello che oggi definiamo Gothic rock.
Per intenderci gruppi come The Cure, Bauhaus, Sister of Mercy e via dicendo, non sarebbero nemmeno esistiti senza Ian Curtis & co.
Come si parla di un’opera d’arte?
Io non lo so, non ho la giusta dimestichezza con le parole per farlo in maniera decente.
A me hanno sempre un po’ annoiato quei critici che cercano di descrivere un’opera d’arte sezionandola in pezzi. Tra l’altro basterebbe andare su internet e digitare Unknown Pleasures per individuare una recensione infinitamente più precisa e accurata della mia.
Allora ho deciso di far parlare i miei ricordi, i miei pensieri e le mie suggestioni per dipingere un quadro degno di quest’album.
D’altra parte siamo quasi arrivati alla fine di questa mia appassionata divagazione, e un po’ di campanilismo musicale e ideale me lo concederete, spero.
Uno dei primi libri che io abbia davvero letto nella mia adolescenza si chiamava “Bono on Bono”, una serie di conversazioni tenute dal giornalista francese Michka Assayas con il frontman degli U2 Paul David Hewson.
In questo libro si parlava un po’ di tutto, dalla politica all’attivismo, dalla vita privata alla musica.
Mentre citava alcuni degli artisti che lo avevano ispirato, Bono accennò a una canzone tratta dal loro primo album A day without me, dedicata ad un certo Ian Curtis, cantante dei Joy Division.
Andai subito a cercare informazioni in rete.
Il primo ascolto fu una specie di pugno nello stomaco. Un colpo benevolo ovviamente, che mi aprì tutta una serie di orizzonti per me ancora inesplorati.
Quella voce così triste ed espressiva e l’atmosfera pesante che si respirava nei loro pezzi mi toccarono nel profondo.
Ian Curtis è il “Deus ex machina” dei Joy Division.
Parlo di un ragazzo che a soli vent’anni è stato capace di scrivere alcune tra le liriche più belle del rock.
Durante i concerti spesso simulava gli attacchi d’epilessia dai quali era attanagliato, che lo portarono a soffrire di depressione e dunque, alla giovanissima età di ventitré anni, a togliersi la vita.
I suoi occhi chiari erano così penetranti ed intensi.
Mi faceva letteralmente sobbalzare (e lo fa tuttora) il basso prepotente che s’insinuava nelle mie orecchie dall'incipit Disorder. Impazzivo per quelle chitarre scintillanti con soli su un’unica corda così semplici che potevo suonarli persino io, per il ritmo estenuante della batteria, per Ian che urlava a ripetizione “I’ve got the spirit, but lose the feeling. Feeling, feeling, feeling, feeling, feeling!”.
Sarò netto: questo è un album dalle tinte tetre, pessimista, arrabbiato, ma non è assolutamente un lavoro pesante.
Questo è il motivo per cui l’ho sempre preferito al successivo Closer, perché nonostante la sua vena declinante Unknown Pleasures si fa ascoltare dalla prima all’ultima traccia con una gradevolezza unica.
Riesce a trasmetterci la frustrazione, l’alienazione, l’inquietudine dei suoi autori senza diventare monotono.
Non mancano all’interno del disco piacevoli sprazzi di elettronica, il più delle volte completamente assorbiti dal generale suono scarno ed elettrico.
In questo senso Insight non fa testo, poiché nel bel mezzo della canzone sembra di ritrovarsi coinvolti in una battaglia cosmica piena di suoni laser o qualcosa di simile. Il testo ci lascia attoniti: “Indovina, i tuoi sogni finiscono sempre. Non crescono, discendono e basta. Ma non mi importa ormai, ho perso la voglia di volere di più. Non ho paura dopo tutto. Li guardo cadere. Ma possiamo ricordare quando eravamo giovani.”.
Detto da uno che ha ancora vent’anni fa venire i brividi.
Anch’io mi sono sempre sentito un po’ più vecchio di quello che sono.
Non vi allarmate, non ho alcuna intenzione di fare il depresso e vivere fuori dal mondo! (O magari a qualcuno di voi piacerebbe, chi lo sa!)
Quello che voglio dire è che c’è una certa predilezione, in alcuni individui, a sentirsi un po’ più volubili e fragili rispetto agli altri, e questo a prescindere dalle malattie e dai veri problemi della vita. Anzi, a volte i veri problemi ti distraggono da quelli falsi che ti crei tu. Io ne so qualcosa.
(Intendo complicazioni quotidiane aspre ma risolvibili, non certo quelle che aveva Ian.)
In breve, amo questi artisti perché una parte di me si rivede in alcune delle loro problematiche.
Amo questo disco, perché tra quelli dei Joy Division è l’album che mi somiglia di più: malinconico sì, ma anche grato e felice per la vita che ho e per la gente che mi circonda, cui tengo molto.
Forse a voi non sembrerà così positivo questo disco, e infatti non lo è. Ma provate ad ascoltare quello che hanno scritto e suonato i nostri quattro in seguito, e sono certo che anche a voi parrà di riscontrare nel complesso una via d’uscita, una non definitiva resa al nulla.
Schopenhauer e Nietzsche sono tra i miei filosofi preferiti. I Joy Division sono stati parzialmente degli eredi del loro pensiero, forse senza nemmeno saperlo.
Io sapendolo gli ho infinitamente stimati. Perché mi è sempre parso di avere un carattere piuttosto incompatibile con le convenzioni che la società in cui vivo mi obbligherebbe ad assumere.
Assieme a Ian Curtis e compagni ho imparato quanto possa essere difficile la vita.
Da solo ho capito che le cose che contano, per le quali vale senza dubbio la pena combattere le ostilità dell’esistenza e vivere pienamente, sono quelle più semplici.
Non le grandi imprese, la ricchezza, la perfezione.
Vedere mio fratello che si comporta come me alla sua età, chiacchierare per ore con la mia famiglia tutta riunita sul divano, scherzare fino a tarda notte con gli amici, sentirmi soddisfatto per essermi impegnato al massimo in qualcosa, nello scrivere queste pagine per esempio; guardare un film di Troisi e vedermi un po’ meno sfigato, abbracciare la persona migliore che conosco ed avere il privilegio di amarla e di essere ricambiato.
Le piccole cose diventano grandi, enormi, immense.
Ma per poterle apprezzare davvero bisogna conoscerne il valore.
E questo valore lo si apprende anche e soprattutto grazie alla sofferenza a volte insita nei nostri cuori.
Dallo scontro-incontro nasce la vita, dal dolore-amore si impara ad apprezzare ogni suo aspetto, anche quello che ci appare più insignificante.
Ringrazio i joy Division per avermi accompagnato all’imbocco di questo frastagliato tragitto.


Voto: 9.5/10

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