Talvolta ho la sensazione che tutto sia già stato detto, e che a noi non resti che ripetere, magari con accenti diversi e più personali, ciò che qualcun'altro ha ben prima teorizzato ed espresso.
Questo è il motivo per cui negli ultimi anni ho scritto molto meno. Inoltre reputo fuorviante, nonché potenzialmente pericoloso, riversare pensieri intimi in un tritacarne, del quale io stesso in qualche modo faccio parte, come Facebook.
Sulle incoerenze, spesso inevitabili, dell'esistenza mi riservo di parlare in altra occasione, in quanto il discorso si farebbe troppo complicato e mi impedirebbe di approfondire ciò che sento di esprimere in questo momento.
Qui mi limiterò a dire che ritengo si possa essere onesti con se stessi pur usufruendo di mezzi comunicativi di cui non si approvano appieno le modalità e molto spesso i contenuti.
D'altro canto non ho abbastanza stima di me stesso, e della società in cui vivo, per scrivere un libro e proporlo ad un editore.
Eppure, saltuariamente, sento il bisogno di riversare delle considerazioni su un foglio, fisico o elettronico che sia, e il desiderio o meglio ancora la speranza che qualcuno legga, e trovi quantomeno interessante ciò che vi è scritto. Non so se si tratti di un'esigenza narcisistica del mio insoddisfatto ego, o più semplicemente di una necessità comunicativa insita nel mio carattere. Forse non è poi così importante appurarlo, ciò che conta per me in questi, ormai rari, momenti, è tirare fuori quello che sento.
Così ho deciso di farlo nel modo che mi appare più congeniale, sfruttare il Web, ed in particolare Facebook, ma attraverso un filtro, il filtro di questo blog che non utilizzavo oramai da anni, e che mi permette di conservare una speranza speciale: che qualcuno sia davvero interessato a ciò che penso, che lo legga per il solo piacere, o ancor di più per la curiosità, di farlo. In che modo? Superando un ostacolo tanto ridicolo quanto arduo da valicare nel nostro mondo iper-informatizzato e fondato sulla superficialità dell'attenzione, costretto a divincolarsi tra la velocità di azione e la noncuranza: cliccare su un post, aprire una pagina che vada oltre il social network, non fermarsi al titolo (che mi auguro sarà accattivante quanto basta per facilitare questo passo).
Io stesso sono diventato più pigro culturalmente, quindi la mia non vuol essere una critica tout court, perché quelle lasciano il tempo che trovano: ogni cosa va analizzata nel dettaglio e argomentata perché se ne possa discutere seriamente.
Ciò che vado ripetendo, in primis a me stesso è:
ogni tanto facciamolo questo sforzo di cliccare su un pulsante, aprire un'altra finestra sul mondo che non sia riduttiva quanto scorrere la homepage di un collettore di frammenti, più o meno pensanti, ma comunque spesso marginali e insoddisfacenti.
Faccio fatica a mostrare la mia vera anima su Facebook, anche se ogni tanto, più o meno velatamente, ci provo.
Il problema, oggi, è spostare la nostra soglia di attenzione e sete di sapere, in avanti: ci stiamo appiattendo eccessivamente in formule abbreviative che non possono contenere aspetti complicati della realtà.
Trovo imbarazzante e precario discutere di temi complessi su piattaforme sempre più vandalizzate dall'approssimazione, come i luoghi virtuali della società. Allo stesso tempo non comprendo chi li adopera, anche sapientemente, ma poi si rifiuta di rispondere a critiche che gli vengono poste: certo, talvolta sono talmente sconclusionate da rasentare l'inabilita mentale, e in questi disperati casi forse la miglior risposta rimane la non curanza. Ma quando i quesiti posti contengono un minimo di fondamento, per lo meno logico, l'atteggiamento di manifesta superiorità intellettiva, e il conseguente sottrarsi ad un confronto per quanto in luogo inappropriato, lo trovo vile, facilistico e in definitiva gravemente errato.
Se si decide di partecipare ad un "gioco" bisogna accettarne le regole. Questo non vuol dire che si debba giocare come tutti gli altri.
Concludo questa lunga, e apparentemente confusa, dissertazione tornando alla considerazione in principio: è stato tutto detto? Non lo so. So che non ho voglia di aprire dibattiti che spesso si evolvono al ribasso; che ho meno voglia di esprimermi rispetto a prima, perché sovente lo trovo superfluo e comunque inutile. Mi piace parlare negli occhi di chi ho di fronte, magari fumando una sigaretta o bevendo una birra. Camminarci assieme, ché il gesto supporta il pensiero, e viceversa.
Finché senti crescerti nello stomaco qualcosa di impellente tanto da doverlo strappare fuori, e cerchi di fissarlo in parole, frasi, paragrafi o semplicemente ragionamenti, non conta che sia già stato detto o meno: devi farlo, perché è la tua indole, la tua cifra, l'espressione più compiuta della tua esistenza. E non importa se qualcuno aggiungerà un like, o fingerà di comprendere nel tentativo di compiacerti. L'unica cosa che conta realmente è che tu abbia detto esattamente ciò che sentivi, per quanto il linguaggio sia per sua natura insufficiente ad esprimere pensieri ed emozioni, e che qualcuno, anche una sola, unica, persona abbia voglia di ascoltarti, di leggerti: solo rappresentandoci quanto più possibile in maniera veritiera, seppur inevitabilmente incompiuta, possiamo rivelarci, essere "amati", e volere un po' più bene a noi stessi.
Questo è il motivo per cui negli ultimi anni ho scritto molto meno. Inoltre reputo fuorviante, nonché potenzialmente pericoloso, riversare pensieri intimi in un tritacarne, del quale io stesso in qualche modo faccio parte, come Facebook.
Sulle incoerenze, spesso inevitabili, dell'esistenza mi riservo di parlare in altra occasione, in quanto il discorso si farebbe troppo complicato e mi impedirebbe di approfondire ciò che sento di esprimere in questo momento.
Qui mi limiterò a dire che ritengo si possa essere onesti con se stessi pur usufruendo di mezzi comunicativi di cui non si approvano appieno le modalità e molto spesso i contenuti.
D'altro canto non ho abbastanza stima di me stesso, e della società in cui vivo, per scrivere un libro e proporlo ad un editore.
Eppure, saltuariamente, sento il bisogno di riversare delle considerazioni su un foglio, fisico o elettronico che sia, e il desiderio o meglio ancora la speranza che qualcuno legga, e trovi quantomeno interessante ciò che vi è scritto. Non so se si tratti di un'esigenza narcisistica del mio insoddisfatto ego, o più semplicemente di una necessità comunicativa insita nel mio carattere. Forse non è poi così importante appurarlo, ciò che conta per me in questi, ormai rari, momenti, è tirare fuori quello che sento.
Così ho deciso di farlo nel modo che mi appare più congeniale, sfruttare il Web, ed in particolare Facebook, ma attraverso un filtro, il filtro di questo blog che non utilizzavo oramai da anni, e che mi permette di conservare una speranza speciale: che qualcuno sia davvero interessato a ciò che penso, che lo legga per il solo piacere, o ancor di più per la curiosità, di farlo. In che modo? Superando un ostacolo tanto ridicolo quanto arduo da valicare nel nostro mondo iper-informatizzato e fondato sulla superficialità dell'attenzione, costretto a divincolarsi tra la velocità di azione e la noncuranza: cliccare su un post, aprire una pagina che vada oltre il social network, non fermarsi al titolo (che mi auguro sarà accattivante quanto basta per facilitare questo passo).
Io stesso sono diventato più pigro culturalmente, quindi la mia non vuol essere una critica tout court, perché quelle lasciano il tempo che trovano: ogni cosa va analizzata nel dettaglio e argomentata perché se ne possa discutere seriamente.
Ciò che vado ripetendo, in primis a me stesso è:
ogni tanto facciamolo questo sforzo di cliccare su un pulsante, aprire un'altra finestra sul mondo che non sia riduttiva quanto scorrere la homepage di un collettore di frammenti, più o meno pensanti, ma comunque spesso marginali e insoddisfacenti.
Faccio fatica a mostrare la mia vera anima su Facebook, anche se ogni tanto, più o meno velatamente, ci provo.
Il problema, oggi, è spostare la nostra soglia di attenzione e sete di sapere, in avanti: ci stiamo appiattendo eccessivamente in formule abbreviative che non possono contenere aspetti complicati della realtà.
Trovo imbarazzante e precario discutere di temi complessi su piattaforme sempre più vandalizzate dall'approssimazione, come i luoghi virtuali della società. Allo stesso tempo non comprendo chi li adopera, anche sapientemente, ma poi si rifiuta di rispondere a critiche che gli vengono poste: certo, talvolta sono talmente sconclusionate da rasentare l'inabilita mentale, e in questi disperati casi forse la miglior risposta rimane la non curanza. Ma quando i quesiti posti contengono un minimo di fondamento, per lo meno logico, l'atteggiamento di manifesta superiorità intellettiva, e il conseguente sottrarsi ad un confronto per quanto in luogo inappropriato, lo trovo vile, facilistico e in definitiva gravemente errato.
Se si decide di partecipare ad un "gioco" bisogna accettarne le regole. Questo non vuol dire che si debba giocare come tutti gli altri.
Concludo questa lunga, e apparentemente confusa, dissertazione tornando alla considerazione in principio: è stato tutto detto? Non lo so. So che non ho voglia di aprire dibattiti che spesso si evolvono al ribasso; che ho meno voglia di esprimermi rispetto a prima, perché sovente lo trovo superfluo e comunque inutile. Mi piace parlare negli occhi di chi ho di fronte, magari fumando una sigaretta o bevendo una birra. Camminarci assieme, ché il gesto supporta il pensiero, e viceversa.
Finché senti crescerti nello stomaco qualcosa di impellente tanto da doverlo strappare fuori, e cerchi di fissarlo in parole, frasi, paragrafi o semplicemente ragionamenti, non conta che sia già stato detto o meno: devi farlo, perché è la tua indole, la tua cifra, l'espressione più compiuta della tua esistenza. E non importa se qualcuno aggiungerà un like, o fingerà di comprendere nel tentativo di compiacerti. L'unica cosa che conta realmente è che tu abbia detto esattamente ciò che sentivi, per quanto il linguaggio sia per sua natura insufficiente ad esprimere pensieri ed emozioni, e che qualcuno, anche una sola, unica, persona abbia voglia di ascoltarti, di leggerti: solo rappresentandoci quanto più possibile in maniera veritiera, seppur inevitabilmente incompiuta, possiamo rivelarci, essere "amati", e volere un po' più bene a noi stessi.
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