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giovedì 24 agosto 2023

Uno psicologo nei lager



Quarto giorno del nostro viaggio di nozze. Si parte dalla fastosa ed imperiale Vienna di buon mattino, per giungere al campo di concentramento di Mauthausen. È l'unica tappa su cui nutrivamo qualche perplessità, forse non si addice alla luna di miele di due novelli sposi, ma il nostro è un viaggio organizzato, ed infondo ci pare un affronto esimerci da questa visita così drammatica e rilevante.
Ad attenderci la nostra guida, un austriaco sulla cinquantina, non molto alto ma in piena forma fisica, dimostra certamente meno degli anni che ha con il suo taglio a spazzola e l'abbigliamento casual. Parla bene l'italiano, anche se con l'accento tipico della lingua tedesca. Noto subito al suo polso un meraviglioso orologio: un Rado, riedizione degli anni 50' con Dial verde soleil sfumato petrolio. Gli faccio i miei complimenti.
Porta con sé alcuni fogli, lettere, stampe, fotografie, testimonianze che utilizzerà per supportare la nostra visita.
Ci dirigiamo subito in prossimità degli enormi massi di granito che gli internati erano costretti a trasportare per lunghissime ore, sulla "Scala della morte": un vortice spaventoso solo a guardarlo, una specie di discesa negli inferi tant'è ripida ed insidiosa, e mi domando come potessero degli uomini mal nutriti e nelle peggiori condizioni igieniche immaginabili ascenderla con addosso massi di cinquanta e più chili.
La guida ci sfida a sollevarne uno. Li guardo e penso che prendendo uno dei più piccoli potrei farcela, ma che senso avrebbe? Desisto.  
Dalla collina s'intravede una fattoria, la stessa dalla quale una signora scrisse una lettera che il nostro Cicerone ci legge: si lamenta delle vessazioni, delle violenze perpetrate nei confronti dei detenuti alla luce del sole, chiede che le si facciano laddove nessuno può vederle.
Andando avanti visitiamo i capannoni, le camere a gas, i crematori.
Ero pronto a tutto questo, ne avevo letto, studiato, sentito parlare dalla viva voce dei sopravvissuti, visto foto e video.
A qualcuno scende una lacrima, qualcun altro fa il segno della croce. 
Una cosa mi rimane impressa di questa nostra visita: le parole di uno scrittore, Viktor Frankl, lette con trasporto dalla nostra guida. Psicologo, rinchiuso in quattro diversi lager, Frankl sostiene che in ogni situazione, anche la peggiore ove l'uomo è abbruttito da ogni forma di cattiveria e violenza gratuita come all'interno dei lager, questi continua ad avere una possibilità di scelta in merito al suo comportamento.
Nulla di più scontato, ma se a dirlo è uno che ha vissuto sulla propria pelle tutta la cattiveria di cui il genere umano è capace, che è stato testimone degli oppressi che divenivano oppressori famelici, e parimenti di altri, i meno naturalmente, che preservavano una dignità assoluta anche nelle torture più atroci, c'è da dargli credito, e da tentare di fondarvi le basi del proprio comportamento in ogni situazione quotidiana.
Non avevo mai sentito parlare di Viktor Frankl, del quale ho ora avuto modo di leggere alcune opere che descrivono il suo metodo psicoterapeutico, la logoterapia.
A tutti, però, consiglio di leggere il suo breve libro "Uno psicologo nei lager"; se non ci sarà d'aiuto nel migliorare il nostro modo di essere, quantomeno avremo testimonianza che qualcuno, spogliato da ogni dignità umana tranne che da quella che si era costruito dentro di sé, ci è riuscito  e che dunque è possibile essere uomini migliori, sempre e comunque.

venerdì 18 novembre 2022

Verso te

La vita ci offre molti modi di esternare quello che siamo.
Per me, negli ultimi anni almeno, la questione centrale è sempre stata quella di mirare ad una sorta di equilibrio, un atteggiamento che non contraddicesse i valori cui sono legato e che allo stesso tempo mi permettesse di tirare avanti facendo i conti con le storture della realtà quotidiana.
L'equilibrio è sempre precario, così come la verità è sempre un passo avanti rispetto al nostro approdo, ma ciò che conta davvero, l'unica cosa che conta davvero nella vita, è sforzarsi costantemente di tendere all'equilibrio, pur sapendo che non sarà mai compiutamente e definitivamente nostro.
Così facendo si può riuscire, in ogni momento della nostra esistenza, a migliorarsi, fosse anche di poco.
Quando spesso si dice che la vita è movimento, questo è ciò che intendo per quel movimento: scostarsi, anche solo di mezzo passo, verso la rappresentazione ideale che ci siamo dati di noi stessi. Tale obiettivo dovrebbe essere la bussola della nostra esistenza, la sola compiuta realizzazione che ci è concessa.


domenica 31 luglio 2022

Dei lavori che (quasi) nessuno vuol fare, ma che (quasi) tutti vogliono che qualcuno faccia

Ogni tanto mi capita ancora di riflettere, una pratica molesta che ho cercato, invano, di abbandonare negli ultimi anni.
Certamente avrete  avuto modo di ascoltare, se non dire, "eh ci sono dei lavori che nessuno vuol più fare!"
Dal panettiere, al muratore, dall'allevatore al fabbro e così via.
In effetti, pur non avendo dati ufficiali alla mano, anche a me pare che alcuni di questi impieghi siano messi da parte per ambire a posti più remunerativi, o semplicemente più comodi.
Senza entrare nel merito della polemica circa il se e quanto tali occupazioni possano essere appetibili, mi preme in questa brevissima osservazione notare che, ogni qualvolta un mio interlocutore si lamenta delle carenze di suddette figure professionali, ovviamente condendo le sue dissertazioni con valutazioni spregiative di colui o colei che non ha portato avanti l'attività per mancanza di volontà, voglia, coraggio ecc., egli (il mio interlocutore) non ha mai nemmeno lontanamente tentato di avviare un laboratorio per la panificazione, non ha preso con se un piccolo gregge da curare ogni mattino, e tantomeno ha ritenuto opportuno fare un mestiere che implicasse particolari sforzi fisici.
Ecco, questo giusto per evidenziare una deriva che troppo spesso ci contraddistingue, ovvero il parlare, o per meglio dire blaterare, senza alcuna cognizione di causa, stigmatizzando ogni decisione altrui.
Mi piacerebbe tanto un mondo in cui tutti si strappino i capelli per fare i panettieri, ma non posso certo inculcare in qualcun altro una volontà che non mi appartiene, né posso pretenderla da lui.
Insomma, pensiamo a fare bene il nostro di lavoro, che già quello sarebbe un mezzo miracolo.

giovedì 14 aprile 2022

Orgoglio

Sei nato con una malformazione all'aorta che fin da piccolo ti ha creato problemi.
A soli due anni mangiavi pochissimo e i nonni temevano potessi non farcela, tanto che, una volta ricoverato all'ospedale, la nonna fece voto alla Madonna di Loreto: se ti fosti salvato, ti avrebbe fatto la comunione presso il celebre santuario a lei dedicato.
Spesso mi raccontavi del regalo che ricevesti  in quella occasione: una serie di offerte che tanti altri malati in attesa di guarigione ti fecero durante la messa.
Poi sei cresciuto, a scuola ti chiamavano "lo scoiattolo" perché saltavi sui banchi e sgusciavi tra le gambe dei compagni; di tanto in tanto, più in là negli anni, saltavi le lezioni preferendogli il club che avevate fittato con altri amici.
A soli nove anni dei ragazzi ben più grandi di te, affascinati da quella voce bianca che sentivano sovente risuonare in una via Garibaldi non ancora così caotica, ti chiesero di cantare per il loro gruppo. Conserviamo ancora oggi la foto di quel tuo primo concerto: eri un bambino, ma la musica scorreva già nelle tue vene.
Per i diciott'anni dei tuoi figli hai organizzato, com'è consuetudine al giorno d'oggi, delle belle feste al ristorante, con musica, tanto cibo ecc.
Per i tuoi diciott'anni anni, invece, nonno ti donò 500 lire con le quali offristi delle succulente aragoste alla crema a 4 o 5 dei tuoi amici più stretti. Parlavi di quei dolci come del regalo più bello che avresti mai potuto ricevere.
Mi hai insegnato l'impegno, la dedizione, la serietà sul lavoro e nella vita. Il tuo lavoro lo amavi profondamente, così profondamente che non ti bastava essere il custode del castello, il castello lo avevi studiato in ogni suo minimo dettaglio, sui libri di notte, sul campo di giorno, dalla voce viva di tutti gli studiosi che lo hanno analizzato. E lo raccontavi, donandolo ai visitstori, come solo tu sapevi fare. 
Sapevi essere duro e dolce ad un tempo, hai resistito con coraggio a tutte le batoste che la vita ti ha riservato. Due operazioni a cuore aperto, ictus, crisi epilettiche, e ti sei sempre rialzato. Alla fine un altro ictus ti ha portato via ("Free at last, they took your life, they could not take your pride").
Voglio solo che tu sappia che anche io voglio resistere, resistere alle angherie di questi tempi bui, alla pandemia, alla guerra, alla paura.
Non sono bravo a divincolarmi in una società così complessa come lo sei stato tu, ma resistere, caro papà, è sempre stata la cosa che mi viene meglio.
In questo ho avuto il miglior esempio possibile.

sabato 1 maggio 2021

Il bidello (quasi) felice

Oggi torno a scrivere dopo un lungo periodo di pausa. 
Come per ogni altra attività, anche per questa bisogna avere delle motivazioni che ci spingano, e per me ognuna delle suddette era temporaneamente venuta meno.
Ho abbandonato ogni velleità letteraria da diverso tempo, ma mi piace scrivere e per di più mi aiuta a mettere ordine tra i miei cassetti, a sentirmi più sicuro.
Avrei potuto dire tante cose in questo lungo e travagliato anno segnato dalla pandemia; infine ho deciso di tacere, la mole di parole attorno all'argomento è stata e continua ad essere talmente elevata che altro non può se non confondere, irritare, disorientare.
Parlare di me stesso avrebbe d'altro canto rasentato la noia più assoluta, ma è sempre di noi stessi che parliamo, in un certo senso, no?
Da ottobre ho iniziato a fare il collaboratore scolastico (leggasi bidello) presso l'Istituto di Guglionesi.
Potrei dire che è la prima vera esperienza lavorativa di una certa rilevanza della mia vita. Un'esperienza arrivata piuttosto inaspettatamente, sebbene io avessi rinnovato per due trienni la domanda e avessi nel frattempo completato alcuni corsi (attenzione completato, non comprato come purtroppo sempre più spesso accade) che concorrevano ad aumentare il mio punteggio. Non lo feci certo con l'obiettivo di raggiungere una chiamata in questo ambito lavorativo (in tutta onestà non credevo di avere alcuna chance), ma più che altro perché erano corsi spendibili in diversi campi e non avevo poi di meglio da fare per impiegare il tempo.
Ebbene anche quelli mi sono serviti, e così mi sono ritrovato catapultato in una scuola a fare sì le pulizie, ma anche tante altre piccole cose che non mi dispiacciono affatto, e soprattutto ad avere un contatto quotidiano con tanti giovani ragazzi, bambini, linfa vitale che inevitabilmente ti strappa qualche sorriso e speranza oltre ad un arrochito strillo qua e là.
Non so se questa opportunità potrà protrarsi anche in futuro, mi auguro di sì, ma sono soddisfatto di averla colta, e ancora più orgoglioso vado del fatto che, solo, sono riuscito ad intraprendere un percorso lavorativo, senza lasciarmi abbindolare dalle lusinghe di un mondo dove in tanti si vedono costretti  o comunque portati a chiedere e ricambiare favori.
Ho sempre vissuto nella narrazione che, se si vuol essere felici, nella vita bisogna fare ciò che si ama, ciò che ci fa sentire realizzati; ebbene da quasi una decina d'anni a questa parte il mio unico desiderio era riuscire a farcela da solo, trovando un lavoro che mi permettesse di cogliere l'unico sogno, l'unica ambizione che mi pare degna di questo nome: raggiungere l'indipendenza per me e la ragazza che amo, nel pieno rispetto dei principi in cui credo e senza nulla togliere a qualsiasi altro individuo.
Certo, sono cosciente che la strada che mi attende è assolutamente irta e piena di insidie, oltre che lunga e faticosa; così come sono consapevole del fatto che ho avuto la mia buona dose di fortuna nel ricevere questa chiamata: fortuna dovuta solo alla circostanza che, conseguentemente all'emergenza pandemica, si sono resi necessari molti più posti in ambito scolastico. 
Tuttavia sono anche contento di aver accettato la sfida, e che quel poco che ho seminato, forse, sia stato ben seminato e possa dare i suoi frutti.
Così, oltre a fare tante piccole cosucce interessanti che mi tengono attivo fisicamente e mentalmente, sono finache felice di pulire i pavimenti, e pure i cessi!
Sono felice perché, nonostante i miei tantissimi difetti, mi sento pulito, e faccio un lavoro che ha tutte le caratteristiche del lavoro cui ambivo.
Per quanto attiene alle mie grandi passioni come la scrittura, la lettura, il vacuo filosofeggiare, ho anche il tempo e un pizzico in più di serenità per dedicarmici a fondo e con maggior profitto.
Che poi, il bidello-filosofo è una figura mitologica oramai acclarata.
Certo, più danni di un Fusaro qualsiasi non li potrò fare!

mercoledì 23 settembre 2020

L'unico Viaggio che non puoi evitare



"Mi credevo un idealista, è così che uno chiama i propri piccoli istinti vestiti di paroloni." 

Ora cerco di leggerli, alcuni libri. 
Una volta credevo che bastasse tenerli in bella vista su uno scaffale per fingersi più intelligenti, più esperti della vita. Mi ci davo un tono, insomma. Per un po' ho addirittura sinceramente creduto che bastasse studiarli, quei balordi, per immagazzinare pezzi di consapevolezza.
Adesso basta che mi facciano compagnia.
Viaggio al termine della Notte di Céline me ne ha fatta per un bel pezzo. 
Dapprima mi guardava torvo da una mensola nella mia camera, ma io lo ignoravo: avevo diciassette anni e  se proprio dovevo leggere preferivo farlo con qualcosa di più immediato e conciliante, Siddharta ad esempio. Mi intrigava però quel titolo, quell'autore "controverso". 
Sono trascorsi oltre dieci anni prima che riuscissi ad intraprendere quest'emozionante traversata tra gli spasmi del 900' ma, è banale dirlo, ne è valsa la pena.
Nessun libro come questo ha saputo restituirmi un vivido ritratto del secolo scorso, frammentato, turbolento, sboccato, claudicante, ringhioso, ma più di tutto sincero, autentico.
Questa qualità, di cui tanto pecchiamo noi uomini, mi pare la più difficile da riscontrare ancora oggi.
Un filo conduttore conduce dalle ultime pagine di questo capolavoro ai giorni nostri, in cui si sono forse modificate le modalità, le forme, ma non la sostanza dei problemi esistenziali tra cui Bardamu, protagonista del romanzo, ruzzola rocambolescamente.
Ma non voglio certo insegnare nulla a nessuno io, non ho nulla da insegnare. Spero solo che qualcun altro di voi là fuori, possa godere, come io ne ho goduto, della compagnia inestimabile di queste parole, di queste percezioni, di queste fascinazioni.
Che dopo tutto, in un modo o nell'altro, siamo tutti viaggiatori: camminiamo sul crepuscolo delle nostre coscienze, barcollando di qua e di là. Se solo capissimo che percorriamo lo stesso tragitto verso la stessa meta, smetteremmo di metterci gli sgambetti a vicenda, di giudicare, di fare le gare. 
Céline ora si sarebbe fatto una grassa risata. 
Ridi, amico mio, le tue parole come ben sai non mi hanno insegnato niente, ma mi hanno fatto star bene.

mercoledì 2 ottobre 2019

Oltre l'Umanesimo


Sovente mi interrogo riguardo l’opportunità di continuare a scrivere nonostante la pressoché nulla condivisione che nell'ultimo periodo riservo alle mie pagine. Devo ammettere che la spinta propulsiva derivante dalla consapevolezza che qualcuno legga è assai intensa, e non vorrei che la mia apparisse come un’aperta ammissione di mancanza d’audacia.
Non che io mi ritenga un ardito, ma sarebbe ad ogni modo improprio imputare alla mia insicurezza e pavidità una tale scelta. Essa discende piuttosto dall'impossibilità di potermi esprimere in un contesto che reputi adeguato, così ché preferisco donare queste mie considerazioni all'oblio della mia sola coscienza, questa sconosciuta. Né m’inganno, sebbene tale prospettiva carezzi la mia narcisistica immaginazione di tanto in tanto, che le mie divagazioni possano venire riscoperte in un futuro (magari non troppo lontano) da qualche “archeologo del web”, amante delle lettere e della riflessione.
Se la parola è innanzitutto linguaggio, il linguaggio comunicazione, e la scrittura una delle più sofisticate forme di questa comunicazione, mi si obietterà che non ha alcun senso scrivere senza condividere ciò che si è scritto. Lungi da me il voler contraddire in maniera totalizzante questo asserto, mi è impossibile e inoltre una sì fatta contraddizione si rivelerebbe in tutta la sua ipocrisia. Dico solo che scrivere con autenticità, pur sapendo che quasi nessuno leggerà, si può fare e ha molto senso, senza che con questo si cada nel mero individualismo o addirittura nell'autoreferenzialità.
Giacché la nostra “interiorità” consta di miriadi di sfaccettature che in un certo senso trascendono i limiti del nostro corpo, pur rimanendovi saldamente ancorate, e ancora, poiché suddetta interiorità è assai composita e parzialmente mutevole, si converrà con me che non v’è assolutamente nulla di assurdo nel dialogare con se stessi; in effetti è ciò che facciamo quotidianamente, pur senza usufruire di un mezzo esteriorizzante come la parola detta o la scrittura. Ci basta il pensiero, o, come direbbe qualche moderno studioso di neuro-scienze, un insieme di algoritmi. L’ “Io narrante” interverrebbe poi a mettere in ordine le infinite caselle del nostro cruciverba senza soluzione, e a dare un senso a ciò che un senso non ha.
Ma, tralasciando per una attimo le dispute riguardo il funzionamento ultimo della nostra coscienza o del nostro sistema nervoso, ciò che mi preme dimostrare in questa sede è che pensare, parlare, anche solo per e con se stessi (magari evitando di essere tacciati per schizofrenici) è tutt'altro che un procedimento egoistico, misantropo, e non necessariamente opportunistico. In prima istanza, probabilmente, è un’esigenza connaturata alla nostra esistenza, ed in quanto tale inevitabile. Il passo successivo, ovvero scrivere per se stessi, non è poi così diverso dallo scrivere “per se stessi e per gli altri”.
C’è un pezzo di me dentro di te, chiunque tu sia e dovunque ti trovi, così come io sono, forse per una milionesima parte, ciò che tu sei. Dunque, dialogare con se stessi equivale, ovviamente in via incidentale ma non per questo fasulla,  a interloquire con l’Altro. Ma chi è quest’Altro cui facciamo tanto spesso riferimento? Colui che ci è più prossimo e più simile, ovvero l’altro essere umano. A ben vedere, però, l’essere umano non è affatto qualcosa di scisso e di completamente avulso da ciò che lo circonda: egli è anche ciò che lo circonda, le piante, gli animali, l’aria, l’acqua, la terra, ecc.
Invece di guardarci intorno e cercare di riconnettere la nostra specie ad un complesso e stratificato mondo animale e vegetale di cui è ineluttabilmente parte integrante, senza per questo scadere in banali e poco consapevoli slogan animalisti o ambientalisti, stiamo facendo sì che l’Umanesimo,  indiscutibilmente foriero di grandissime conquiste per il nostro genere e parimenti padrino di uno dei più grandi fraintendimenti mai partoriti (l’Uomo come centro e misura di ogni cosa), venga superato nella direzione sbagliata: quella della tecnica che non è imbrigliata da alcun valore umano né tanto meno dall'attenta analisi e dal riguardo per i fenomeni naturali.
L’Umanesimo andrebbe invece profondamente integrato, rivisto, rivoluzionato prendendo le mosse proprio da una profonda critica verso molti dei valori che ha generato e portato all'apice, tralasciando di essere rappresentativo esclusivamente di un frammento dell’ecosistema da cui dipende la sua stessa esistenza.
Come conciliare la dignitosa preservazione del genere umano, ed in particolare degli affetti che ci legano ai nostri simili, con la definitiva rivalutazione del cosmo che ci attornia e pervade?
Questa è la più complessa questione sulla quale dovremmo sforzarci di ragionare e tentare di proporre delle risposte, anche adoperando le più avanzate tecnologie, facendo ricerca scientifica, inventando e lavorando, ma ricalibrando, ove necessario in ogni momento, il tragitto che tali attività possono imboccare. Il viandante deve interrogarsi continuamente sulle ragioni del suo cammino per continuare ad avanzare e non lasciarsi cadere; poiché la “ fede nella verità comincia con il dubbio in tutte le “verità” credute sino a quel momento”.

martedì 27 agosto 2019

La politica non dovrebbe essere una partita di calcio

L'ennesima crisi di governo scaturita per interessi politici di parte, rappresenta l'occasione buona per dare adito ad una riflessione che covo da un po' di tempo a questa parte.
Esulando volontariamente dal dare giudizi di merito riguardo le varie fazioni partitiche, mi soffermerei invece su un dato di fatto: nel nostro Paese ad ogni dibattito politico, fuori e dentro il Parlamento, pare di assistere ad una partita di calcio in cui i pochi tifosi che stanno sulle tribune fanno spudoratamente il tifo per la "squadra del cuore". Ma alla fine di questa partita non si vince una coppa, né un premio in denaro, bensì ci si gioca il presente e il futuro di milioni di persone.
Sarebbe forse il caso di smetterla una buona volta di ragionare in termini di un futuro consenso elettorale, per concentrarsi invece sui problemi pulsanti che affliggono la quotidianità di quasi tutti i cittadini, e confidare dunque in quella che si ritiene fin da subito la soluzione realistica migliore, per quanto non in termini assoluti. Purtroppo dobbiamo fare i conti con le inevitabili distorsioni che qualsiasi "sistema di potere" comporta, di più con la non meno ineffabile ed imperfetta natura umana. 
Il dato peggiore di questa disamina fattuale, riscontrabile ogni giorno alla tv, sui giornali e attraverso il web, è che i protagonisti non sono solo i politici, che ovviamente danzano senza soluzione di continuità da una dichiarazione al suo opposto, da una volgare offesa dell'avversario alla sua puntuale santificazione, salvo poi tornare sui propri passi laddove la situazione si facesse meno conveniente; i protagonisti, dicevo, sono soprattutto gli ignari individui che si fanno portavoce di una dialettica politica della più bassa lega, la quale punta unicamente ad interessi partitici piuttosto che a quelli della comunità. Si sfidano, si azzuffano, sbraitano ogni sorta di abominio sulle proprie pagine social pur di dare ragione al loro paladino di turno, che si tratti di Salvini, Di Maio o Renzi.
Provo un'incommensurabile pena per queste persone: tutti ci sentiamo in qualche misura di parte, abbiamo delle preferenze, sebbene in un panorama politicamente così desolato appaia davvero arduo individuare un personaggio degno di una qualsivoglia forma di rispetto; eppure non capisco come ci si possa ancora lasciare trasportare da una diatriba del genere, al punto da comportarsi come militi al soldo del capetto di turno.
Il militante, l'inquadrato, lo squadrista mi provocano l'orticaria al pari del tifoso che pur di "vincere" accorderebbe ogni sorta di scorrettezza al club per cui parteggia.
Il tifoso calcistico però lo compiango, si accanisce per una partita da cui non avrà nulla, che finisca bene o male; la sua è una passione pura, sciocca ma disinteressata.  
Il tifoso politico, invece, è doppiamente stolto: esprime un appoggio incondizionato per chi lo ha già preso e lo prenderà ancora per i fondelli, e si convince che il suo interesse coincida con quello di tutti i sette miliardi di individui che popolano il mondo.
I militanti e i menefreghisti sono due facce della stessa medaglia: entrambi credono, senza dubbio alcuno, senza porsi mai un quesito, di avere sempre, inevitabilmente, ragione.

sabato 20 luglio 2019

L'Aquila: cronaca distratta di una sessione di Laurea

L'Aquila.
Laurea specialistica di mia sorella.
Sala gremita di astanti chiassosi e distratti. Distratto anche io, posto che la logopedia, ad oggi, non mi  interessi granché, e che il microfono non amplifichi minimamente la voce delle laureande. Per la loro gioia, immagino.
Quantomeno resto in silenzio e cerco di allietare il mio scorrere del tempo scrivendo quanto segue.
Il viaggio da Gambatesa al capoluogo abruzzese è stato lungo e tortuoso: se in linea d'aria le due località distano poco, lo stesso non può dirsi del chilometraggio stradale, per di più appesantito dal tragitto ascendente e sinuosissimo. Così, partiti alle 3 del pomeriggio, dopo una breve pausa a metà via, siamo giunti a destinazione solo alle 19.00.
Subito ci siamo recati a Collemaggio, pregevole Basilica finemente lavorata all'esterno (l'interno, visto l'orario, aveva già chiuso al pubblico), e alla celebre ed iconica fontana delle 99 cannelle.  Poggiati i bagagli al "BeB" dove trascorreremo la notte, ci dirigiamo in centro: cena in un colorato ristorante dal non vago sapore arnoldiano (quello di Happy Days, per intendersi), dove, per coerenza, ordino un riso basmati con pollo in salsa thai. Buono, forse un po' troppo americano.
Per digerire e soddisfare l' immaginazione oltre che l'appetito, si passeggia in centro, perlomeno nella parte di quello che risulta accessibile. L'Aquila è una bella città, dal passato visibilmente più rilevante (storicamente) rispetto alla nostra Campobasso, testimoniato da eleganti palazzoni, cospicue chiese e ampie piazze; un presente magmatico ma pulsante, con i tanti giovani che, nonostante la ferita ancora sanguinante del sisma, pullulano nelle strade, tra i locali che sprizzano fame di "eros e thanatos", con cocktail di musica e, immagino, qualche pasticca digestiva, non priva di pericolose controindicazioni. Il futuro è un'incognita, qui come altrove, forse più che altrove, ma la sensazione è che, di là dei cliché, questa città abbia la forza per risollevarsi, confidando nella speranza che nuovi sismi non tornino a scuoterla così forte, sempre che la feroce ingordigia di alcuni uomini non si presti meglio e prima allo scopo.
Viaggiare mi piace sempre più, sebbene non sia ancora riuscito a vincere alcune prassi che contrastano quest'avvincente attrazione: abitudinarietà, poco, pochissimo sonno, ansia di vedere, girare, assaggiare, conoscere, e l'inevitabile stanchezza che ne consegue. In compenso, mi adatto un po' più che in passato.
L'Aquila, questo posto così simile eppure diverso da quello in cui sono cresciuto, questo popolo martoriato dalle  doglie della Terra e dall'incuria di diversi suoi abitanti, mi ricorda ancora una volta quanto io sia piccolo, e quanto possa contare ogni gesto dei "piccoli" come me, se consapevoli di non poter controllare per intero la propria esistenza né di esserne inevitabilmente succubi, bensì di poterla in una certa misura influenzare.
Così è quasi giunto il turno di mia sorella, io non so se ho detto quanto avrei davvero voluto, in realtà non so bene nemmeno cos'ho effettivamente detto, ma mi sento come sollevato, ora che ci ho almeno provato.

giovedì 30 maggio 2019

Sono io

Siamo esseri complessi dotati di un'interiorità cui appartengono le nostre esperienze ed ogni sfaccettatura, anche quella apparentemente meno significante, della nostra esistenza. Eppure la stessa interiorità che ci permea, sempre più spesso senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, trascende in parte la nostra vita, investendo i legami che in qualche misura ci costituiscono, e i retaggi ambientali, culturali, sociali e dunque genetici che contribuiscono a strutturarci in quanto esseri viventi.
Ecco perché, ogni qual volta accenniamo con superficialità a quella indissolubile "identità" che racchiuderebbe la nostra essenza, applichiamo inevitabilmente una sorta di riduzionismo, una cesura forse indispensabile, ma pur sempre artificiosa e labile in alcune delle sue presunte componenti ed espressioni.
Ciò non autorizza a lasciarsi insidiare dalla facile conclusione che ogni essere umano sia privo di un'articolata sfaccettatura interiore strettamente correlata all'ambiente, al corpo e alle loro relazioni, come invece sempre più spesso si va sostenendo.
Il così detto "uomo modulare", che tanto dettagliatamente critica Miguel Benasayag, è divenuto l'ennesimo mitema nella storia dell'uomo, cui aspirare quale modello d'essere al mondo nei nostri tempi. "Costui" si presenta dunque come il singolo, o meglio il "profilo", costituito da moduli intercambiabili, privo di "interiorità, storia, esperienze. Egli ha, deve avere le qualità di un hard disk".
Ecco che si profilano due visioni agli antipodi, eppure così simili nei loro semplicistici approdi: da una parte l'essere umano è percepito come pura interiorità, un blocco unico insensibile ad ogni afflusso esterno; dall'altro, esso è completamente deprivato di ogni sostanzialità intrinseca, e rappresenta null'altro che una costruzione sulla quale apporre pezzi più "performanti" o detrarre quelli che si ritengono inutili se non dannosi.
Ma noi, come detto, siamo molto più di questo: più di un contenuto stipato in un contenitore, più di un ammasso d'informazioni ed esperienze; più di un blocco d'argilla in cui è soffiato un alito divino. 
Quello che siamo non sono capace di spiegarmelo o di dirlo a parole, forse posso solo intuirlo e lasciarlo cadere.
Siamo parte d'un tutto, di questo sono certo: e in quanto parte non possiamo pretendere di farcela da soli, ponendoci al di sopra d'ogni altra cosa. Abbiamo il dovere di rispettare ciò che ci circonda, e rispettarlo non è facile come sembra. 
Nell'epoca delle mode che banalizzano grandi temi del vivere, dell'esasperazione della forma che svuota il contenuto, è fin troppo comodo scambiare la potenziale parte di un percorso con un approdo.
Sono vegano-rispetto gli animali. Ho l'auto elettrica-non inquino. La lista potrebbe essere assai lunga, ma mi bastano due esempi per dimostrare che le cose sono più complesse di come ce le vogliamo rappresentare.
Recuperare il "senso del Sacro", inteso come ciò che è "aldilà" della nostra consapevolezza, appare essenziale. Equivale a riconoscere la nostra "finitezza" che, lungi dall'essere scusante di ogni nostro errore, ci responsabilizza.
Avere "senso del Sacro" vuol dire, inoltre, rendersi conto che esiste qualcosa che trascende i nostri limiti e allo stesso tempo li integra, qualcosa di più grande: e no, non sto parlando di un essere soprannaturale. Chi ha un figlio o ama una persona si rende ben conto di quello che voglio dire.
In definitiva, la nostra storia personale, per quanto rilevante e sensibilmente riconoscibile, non è che una minima parte di ciò che effettivamente siamo.