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sabato 27 settembre 2014

Recensione: Bob Dylan, "Highway 61 Revisited"



Bob Dylan: “Highway 61 Revisited”
 




Era il 1965 quando il ventiquattrenne Robert Allen Zimmerman (in arte Bob Dylan), dopo aver inciso alcuni dei suoi maggiori successi come Bringing it all back home, Another side of Bob Dylan, The times day are a-Changing, e The freewheelin’Bob dylan, diede vita a quello che possiamo serenamente definire l’album più importante che sia mai stato scritto da un cantautore.
E pensare che fu registrato in soli sei giorni.
Immaginate questo ragazzetto gracile e riccioluto che ha appena un annetto più di me, mentre scrive Like a rolling stone, la canzone universalmente riconosciuta tra le più belle della storia della musica?
Mi vengono i brividi solo a pensarci.
Il disco è il secondo della celeberrima “trilogia elettrica”, e viene dopo Bringing it all back home, e prima dell’immenso Blonde on Blonde.
Dylan accantonò le sonorità più marcatamente folk e acustiche, tipiche dei suoi esordi, per avvicinarsi ad uno stile più ammiccante al rock’n roll e al blues.
Sia chiaro, a me piace da morire il Dylan di Blowin’ in the wind e Baby Blue per intenderci.
Ma nessuno dei suoi dischi precedenti contiene un’unità musicale e d’intenti come Highway 61 Revisited.
La voce di Dylan è nebbiosa, i suoi testi ispirati, gli arrangiamenti più tirati che mai.
Al Kooper, Mike Bloomfield, Paul Griffin, Bobby Gregg, Harvey Brooks e Sam Lay suonano egregiamente i rispettivi strumenti.
Un urlo si spande da lontano. Il grido di un giovane cantautore che si scrolla di dosso la venerazione gratuita di alcuni fan ossessionati, che bacchetta certa sottocultura americana, che sputa il fumo di una sigaretta in faccia a una classe dirigente incapace di curare gli interessi della comunità.
Sembra che l’abbia scritto l’altro ieri vero?
Questo è il bello del cantastorie originario di Duluth, che puoi prendere anche il suo testo più invischiato nell’epoca in cui fu elaborato, ma avrà ancora una sua attualità, un senso che travalica le barriere del tempo e del suono e che ti mette dinanzi all’evidenza della verità.
“Conosci la verità, e la verità ti renderà libero”, così recita una frase della Bibbia.
E in un certo qual modo Bob Dylan è stato il profeta della musica moderna, paragonabile per notorietà e rilevanza solo a Elvis Presley, ai Beatles e agli Stones.
Ascoltando Thombstone Blues, Ballad of a thin man, Highway 61 Revisited, Desolation Raw, una cosa ci appare ormai certa: il tipetto “schivo e scontroso” proveniente dal Greenwich Village, si è trasformato in un cantautore esperto e maturo, che sa giocare con la musica e la sua immagine meglio di chiunque altro.
Ce lo dimostrano anche le parole di Cesare Rizzi, che nel descrivere la copertina di questo disco afferma: ”Anche la copertina testimonia di un artista diverso. Dylan indossa una sgargiante camicia psichedelica sopra una maglietta che riproduce la sua moto Triumph, e sfoggia un’aria vagamente di sfida, un atteggiamento un po’ alla James Dean un po’ alla Marlon Brando, a sancire il passaggio irreversibile da cantore della protesta folk, a superstar del rock e personaggio tra i più influenti della scena musicale”.
Nel ritornello di Like a rolling stone Zimmerman si domanda: “Come ci si sente, come ci si sente ad essere da sola? Senza un posto dove andare? Come una completa sconosciuta, come una pietra che rotola?”.
Scherzosamente mi verrebbe da rispondere “The answer my friend, is blowin’in the wind, the answer is blowin’in the wind.”
Amen!
L’Highway 61 collega New Orleans con il Minnesota, il Sud e il Nord degli Stati Uniti d’America, il vecchio e il nuovo Bob Dylan. 
Non ci resta che fare il pieno e correre ad esplorarla.

                                       Voto: 9/10

sabato 20 settembre 2014

Red hot chili peppers, "Blood sugar sex magik"



Red hot chili peppers: “Blood sugar sex magik”




Quando si passa dall’essere bambini all’essere adolescenti si sente il bisogno di dare a se stessi un’identità più marcata.
Credo sia capitato un po’ a tutti, e lo stesso accadde anche a me.
Così, quando iniziai la così detta “scuola media” accantonai Squérez dei Lunapop (è inutile che sorridete, scommetto che voi a quell’età ascoltavate anche di peggio!) e iniziai a prestare attenzione a gruppi che per me erano degli alieni.
Inizialmente non li ascoltavo nemmeno, m’incuriosivano le copertine, le loro pose, le loro facce.
Un giorno andai a fare i compiti a casa di un mio amico. Parlammo di musica, lui ne sapeva meno di me, ma suo padre aveva nella propria collezione di dischi All That you can’t leave behind, un album degli U2.
In quegli anni mi lasciavo guidare dalle sensazioni più di ora, e pensai che sarebbe stato davvero “figo” se avessi detto che quello era il mio gruppo preferito.
Un nome strano, una copertina quasi in bianco e nero con quattro tizi che stavano per prendere un volo o un treno da una qualche stazione. (Tranquilli, non ho sbagliato recensione).
Era la mia emancipazione, il mio modo per distinguermi e contemporaneamente per conoscere meglio me stesso e gli altri.
A Natale i miei parenti mi regalarono una raccolta fresca fresca di quel gruppo. E poco dopo ricevetti le copie di un Best of dei Rem e di Californication dei Red Hot.
Quelli furono i primi tre album che ascoltai sul serio.
Se non avessi avuto quei regali, invece di leggere queste noiosissime righe, ora stareste facendo qualcosa di costruttivo per voi stessi e per la società. Chiedo venia!
Ad ogni buon conto, Blood sugar sex magik lo ascoltai solo un paio di anni dopo. E in quello stesso istante compresi che i veri Red hot chili peppers, quelli che mi piacevano sul serio, erano lì dentro.
Quest’album rappresenta un punto di svolta nella carriera dei californiani, uno stacco tra il disco con pochissima melodia (Mother’s Milk) che venne prima, e quelli tendenti a un pop più accessibile a tutti, che seguirono dopo.
Tenendo insieme i nuovi e i vecchi R.H.C.P (senza annullarli entrambi) questo lavoro è una sorta di prodigio.
Il marchio di fabbrica è senza ombra di dubbio il basso di Flea, una specie d’incontenibile forza della natura, che regala all’intero album (datato 1991) un groove che raggiunge picchi inaccessibili per qualsiasi altra band.
La sezione ritmica è completata dall’ottimo lavoro di Chad Smith.
Anche la voce di Anthony Kieds fa la sua parte, e che se ne dica, con la sua irrisolutezza rende le canzoni più attrattive e sbandate, un po’ come l’intero gruppo all’epoca.
Frusciante si limita a un ruolo di “gregario”, che svolge in maniera egregia, abbellendo molte delle potenti composizioni con le giuste note che appaiono campate in aria, ma che in realtà colpiscono dritto al bersaglio dell’ascoltatore.
Non posso, però, non citare il lavoro di Rick Rubin, una sorta di luminare della produzione.
Grazie anche alla sua sapiente opera, quest’album svaria dal funky al rap, dal rock all’heavy metal, senza risultare farraginoso.
I temi sono quelli della droga, la sessualità. Il linguaggio è forte.
Un disco figlio del suo tempo e dei problemi dei propri realizzatori, che resta di un'attualità sconcertante.
Vi cito solo qualche pezzo: The power of equality, Breaking the girl, Suck my Kiss, Give it away, e in fine  l’indimenticabile Under the bridge.
Vi dicono qualcosa?
Bè, se non vi dicono nulla, è arrivato il momento di fare ammenda e di ascoltare questo pezzo di storia della musica.
                                                                                             
Voto: 8/10

giovedì 18 settembre 2014

La colonna sonora del TUO cambiamento

Quando avevo più o meno quattordici anni frequentavo il liceo scientifico a Campobasso.
Nel percorso che portava alla mia sede scolastica, attraversavo il cosìdetto "Terminal dei bus", dove praticamente su ogni palo o superficie v'erano scritte d'ogni tipo.
Di tanto in tanto mi fermavo a leggerne qualcuna, e tra un "TI AMO Tizia"! e un "VAFFAN....CUORE Gaia!" m'imbattevo in un qualcosa di più rilevante.
"La musica non può cambiare il mondo, ma può essere la colonna sonora del cambiamento". Questa frase troneggiava trionfante  su uno dei tanti, enormi, noiosi, pali gialli del nostro Terminal.
Infondo a me il Terminal ha sempre dato l'impressione di un luogo piuttosto romantico alla sera, nel suo silenzio, nella sua incompletezza, con le sue luci fioche, con i suoi ripetitivi pali gialli.
Così quella frase, nonostante la sua superficiale "paraculaggine",  mi colpì, e guarda caso scoprii di lì a poco che, ad averla proferita era uno dei miei cantanti preferiti.
Ad oggi in effetti, mi appare come un pensiero un pò troppo ottimistico, ma non affatto scontato.
Nel mio caso la musica è sempre stata una colonna sonora. Nei momenti brutti mi ha aiutato a risalire, in quelli belli a godere appieno della gioia che avevo dentro.
Ecco, questo blog s'incentra in particolar modo sulla musica, con le mie pallosissime recensioni, ma la musica non è altro che un aspetto della vita, e non può essere scissa da essa.
Questo blog parla di musica, e attraverso questa parla della vita.
Io non ne sò poi molto della vita; in realtà ho ventitrè anni, non ho mai lavorato, a parte qualche insulsa esperienza, non ho figli, non ho fatto la guerra, non sono mai andato in Cina nè in America.
Eppure mi sono convinto che tutto quello che ho letto e studiato, ascoltato o visto in tv, e vissuto sulla mia pelle, non è altro che una parte di ciò che mi ha formato.
Quello che mi ha formato davvero sono state la persone con cui ho avuto ed ho la fortuna di stare a contatto.
La mia famiglia, la mia ragazza, i miei amici. Mi sono circondato delle persone migliori che conosca, ed un libro di Nietzsche, Dante, o Kant non possono regalarmi che l'un per cento della conoscenza e dell'amore che mi hanno trasmesso i miei cari.
C'è chi non è fortunato come me, e che non può dire lo stesso.A queste persone il consiglio più grande che posso dare, è quello di dare valore a tutto ciò che di buono hanno dentro.
Ed in questo caso la musica, la scrittura, lo sport, le passioni insomma possono aiutare molto.
Sono stanco della moda del lassismo. Sì, il mondo non è un posto facile in cui vivere. Problemi per trovare un lavoro, problemi per amalgamarsi in una società malata, problemi di salute. Ma a cosa serve arrendersi a tutto questo? A nulla.
L'esistenza va vissuta con la consapevolezza delle difficoltà che l'attorniano, e con la forza nel cuore di affrontare queste difficoltà, ma soprattutto di assoparare fino al midollo ogni aspetto positivo della vita.
Sì, perchè la vita è anche piena di gioie, oltre che di dolori, e alla fine del giorno quando vai a dormire dopo una giornata piena d' impegni e difficoltà, sai di essere apposto con la tua coscienza, di avere un percorso da intraprendere, e delle persone da amare.
La musica può farti piangere in un momento triste, oppure sorridere, ma è sempre lì ad ascoltarti e tu ad ascoltare lei. E se si vuole migliorare, per quanto difficile possa essere, lei ti aiuterà. Se tu aiuterai te stesso.
Per citare Max Gazzè, "Una musica può fare!".
Per citare me stesso, che la musica sia la colonna sonora del TUO cambiamento.

domenica 14 settembre 2014

De Gregori, "La valigia dell'attore"



Francesco De Gregori: “La valigia dell’attore”




Quando sei solo un timoroso ragazzino di nove o dieci anni, e giochi a calcio, lo sai.
Sai quanto è dannatamente difficile tirare quel calcio di rigore, avere sulle spalle la responsabilità dell’intera squadra, gli occhi della gente puntati addosso.
È molto più di un semplice calcio a un pallone, è in gioco la tua stessa reputazione, e nonostante la tua giovanissima età questo lo capisci perfettamente.
Anch’io lo capivo.
Presi una lunga rincorsa e buttai dentro tutto il fiato che potevo, ma quel rigore lo tirai fuori.
L’insicurezza mi avvolse come un cobra che vuole stritolarti.
Di tanto in tanto quel bizzarro serpente torna a farmi compagnia, ma per fortuna non mi sono lasciato soffocare. O almeno non del tutto.
Francesco De Gregori ha saputo sintetizzare la complessità di uno stato d’animo attraverso pochi, semplici versi. E già per questo andrebbe idolatrato a vita.
Quand’ero bambino spesso la domenica mattina mi risvegliavo con una delle sue canzoni. Mio padre metteva su Titanic o Pablo, o qualchedun’altra.
Era inevitabile per me affezionarmi a questo disco.
A quei tempi, come avrete ben capito, giocavo a calcio nelle giovanili del mio paese. Ero abbastanza bravo, ma non credevo troppo in me stesso, e così mi capitava di ascoltare La leva calcistica della classe 68’ e di sentirmi rincuorato alle parole “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è certo da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia.”
Una metafora della vita.
Quante canzoni indimenticabili ci sono in questo doppio cd live?
Molte, forse troppe.

Titanic era la mia sveglia della domenica. Una canzone arzilla che mescola ritmi popolari a un testo sull’immigrazione. Interessantissimo, peraltro, l’intermezzo percussionistico presente in questa versione dal vivo.   
Il mio verso preferito di Generale era indubbiamente “in mezzo al prato c’è una contadina, curva sul tramonto, sembra una bambina”. Quante ne avevo viste di contadine ricurve a cogliere le verdure, o addirittura a zappare. Tutte le cose che scriveva De Gregori, io le avevo davanti agli occhi.
Ecco, direi che la peculiarità di questo cantautore è quella di rendere vive le immagini dei suoi brani.
Riuscite a figurarvi “Alice che guarda i gatti” durante un pomeriggio estivo in un piccolo paesello, magari del sud? Credo che non vi sarà difficile associare delle immagini, o dei ricordi a queste parole.
E di certo non è difficile innamorarsi perdutamente di una canzone come Rimmel: “e qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure. E cancello il tuo nome dalla mia facciata, e confondo i miei alibi e le tue ragioni, i miei alibi e le tue ragioni”. Probabilmente assieme a La donna cannone il pezzo più bello di De Gregori.
Un’altra delle cose che mi ha sempre affascinato di questo cantautore, sin da quando ero piccolo, è l’ambivalenza dei suoi testi. Dei testi aperti a diverse interpretazioni, come ha peraltro ammesso egli stesso, e che appunto per questo diventano degli inni epocali.
Pensate a La Storia, scritta nel 1985 e ancora oggi simbolo di una generazione di giovanissimi.
Quella di De Gregori non è semplice scrittura di protesta e, al pari di quella di Bob Dylan, non si lascia ingabbiare dal tempo, dal suo inesorabile scorrere. Anzi in maniera quasi profetica riesce a cogliere l’essenza di diverse epoche, poiché i secoli si susseguono, ma noi uomini continuiamo ad avere gli stessi vizi e difetti, riducendo vertiginosamente le nostre già esigue virtù.  
Una musica impregnata di tradizione popolare accompagna questi versi.
Molti accusano, non a torto, il cantore romano di stravolgere eccessivamente i suoi brani nelle esecuzioni dal vivo. In quest’album non è così, e anche quei piccoli cambiamenti nella melodia rendono il tutto più fluido e moderno.
Se De Andrè è stato il più grande cantautore italiano, certamente possiamo definire De Gregori come il più grande menestrello che la musica nostrana abbia mai avuto. E quello di menestrello non è affatto un epiteto dispregiativo, considerando che i cantautori altro non sono che discendenti di questa figura.
A me poi sono sempre piaciuti i menestrelli… riescono a tramutare il più insulso racconto, in un’epica avventura. E da questo tipo di avventure si apprende più vita di quanta ce ne possa essere in cento libri di altrettanti pretenziosi professoroni.

                                                        Voto: 8.5//10


venerdì 12 settembre 2014

Recensione: U2, "Songs of innocence"



U2: “Songs of innocence”


Cos’è una recensione?
Bè una recensione è, o meglio, dovrebbe essere un’analisi critica di un qualche contenuto, nel nostro caso di un disco.
Dunque chi scrive una recensione dovrebbe porsi in un atteggiamento “ascetico” e analitico, e quanto più possibile oggettivo.
Ma non mi stancherò mai di dire che l’oggettività è come una piuma che non si lascia trasportare dal vento delle passioni umane: semplicemente non esiste.
Allora ecco che ciò che a me appare bello e indiscutibilmente rilevante, per qualcun altro può essere trascurabile o addirittura subdolo.
Questo è quello che andavo farneticando tra me e me, quando l’altro giorno ho trovato in rete una recensio del sopra citato album.
Eppure tra l’avere un giudizio fortemente soggettivo, al bollare un lavoro pregiato come insulso o quasi disgustoso, solo per ragioni meramente personali che nulla hanno a che vedere con la musica, c’è una differenza abissale.
Consiglio vivamente al presunto “critico” che ha scritto ciò che ho letto, di cambiare mestiere, e di mettersi a recensire i giornaletti con le istruzioni per il ricamo, sempre che non sia respinto anche dai fautori di quest’arte.
Scindiamo le due cose: da una parte il marketing, l’immagine, tutto quello che c’è intorno ad una band; dall’altra la musica, il cuore dei nostri discorsi. Sì, perché se compiamo l’errore di amalgamare o sovrapporre le due cose, allora non sbandieriamo in cima al nostro discorso la parola recensione, poiché non si può recensire il comportamento di quattro individui, e le loro scelte di mercato. Certo, si possono criticare, ma allora sarà bene non dare un voto al loro lavoro, ma a essi stessi.
Per fare un esempio, sarebbe come giudicare una tela di Van Gogh criticando il suo comportamento.
Acclarato questo equivoco, in cui facilmente i falsi professoroni sanno gettarsi a capofitto, senza giudicare un bel nulla ma esponendo opinioni personali preconcette contro individui che semplicemente non sopportano (cosa che ci può stare, se sapeste quanti soggetti non digerisco io!), possiamo iniziare a parlare di cose serie: la musica.
Io sono un amante di questo gruppo, quindi non sono imparziale, però credo che per dire che quest’album sia spazzatura, bisogna non sentirci troppo bene, o non capire nulla di musica.
Gli U2 di Joshua Tree, di Acthung, di Boy, di War, non ci sono più. Sono stati ricoperti dallo scorrere degli anni, non perché siano diventati troppo vecchi com’è facile asserire, ma perché si sono spente (per loro) le ragioni che li portavano a essere dei cantori senza macchia contro una società piena di errori.
Gli U2 sono ricchi, fanno una bella vita, stanno più spesso in giro per il mondo che a Dublino.
Volete che Bono vi canti Sunday bloody Sunday con lo stesso pathos che ci metteva a ventitré anni?!
Siamo sinceri, nessuno rimane del tutto uguale a se stesso. Le vicissitudini della vita ti portano a cambiare, a guardare il mondo da un’altra prospettiva, magari a subirlo in maniera diversa, credendo però nelle stesse cose di una volta. Puoi non avere più fame, ma il talento non te lo può togliere nessuno. Come dice Walk on “Quello che hai dentro, non possono strappartelo via”.
Questo è Songs of innocence, una sincera dichiarazione degli U2 di oggi che guardano agli U2 di ieri, non come esempi, ma con una punta di nostalgia e maturità.
Come sempre i nostri hanno sbagliato singolo di lancio, perché ok The Miracle (of Joey Ramone) è un pezzo carino, con un bel riff tosto di Edge, una buona melodia, ma in tutta onestà è la canzone più debole del disco.
Ricordare uno dei gruppi punk migliori di sempre non basta.
Every breaking wave credo che sarà il vero singolo. Un ritmo sincopato sul quale s’insinua voluttuosa la voce del frontman, che esplode poi in un radioso ritornello. Si è un pezzo come lo chiamano i miei amici snob “radiofriendly”, ma chi se ne frega??? È bello o no?
Se mi trovate qualcuno che onestamente può dirmi che gli fa pena, butto questa recensione nel fuoco. È un pezzo stupendo. Punto.
Con California (There is no end to love) si va più sui gusti personali; un pop – rock bello tirato, con un giro di basso trascinate e un ritornello che ci ricorda proprio il sole californiano. Le basi del pezzo sono più deboli che nel precedente caso, ma vi dirò, fa salire una certa adrenalina ascoltarlo.
Song for someone è la ballad acustica che il gruppo non ci aveva ancora regalato. Il testo è dedicato da Bono alla moglie. Da brividi.
Un’altra dedica è presente in Iris (Hold me close), questa volta alla madre di Bono, morta quando lui aveva solo quattordici anni. Il suo nome era proprio Iris.
Con un ritmo vagamente dance, e il fraseggio del nostro guitarhero che fa capolino assieme al basso preponderante di Adam, la canzone ha un forte retrogusto vintage, e sarebbe stata benissimo nel celeberrimo “The unforgettable fire”. Uno dei momenti più riusciti del disco, con un testo davvero toccante. (“Ho la tua luce dentro di me, Iris”)
Da qui in poi comincia la parte più sperimentale del lavoro, secondo me la più intrigante.
Si parte con Volcano ed il suo giro di basso a dir poco avvincente, con una carica energetica difficile da trovare negli ultimi album di questo gruppo. Rock allo stato puro.
Raised by wolves è forse in assoluto il pezzo migliore. Parla di un attentato avvenuto vicino casa di Bono quando lui era ancora ragazzino, e ci si sente dentro tutta la tensione emotiva dell’evento.
La musica tiratissima è cadenzata da suoni campionati, con una chitarra funky tagliente che s’incunea pian piano all’interno della composizione, prendendo il sopravvento insieme ad uno dei ritornelli più azzeccati dell’intera produzione “uduiana”.
Cedarwood Road (nome del quartiere di provenienza di Paul) prosegue in questa direzione, senza avere però le potenzialità del precedente pezzo.
Il vero esperimento è quello di Sleep like a baby tonight che sembra venuta fuori dal progetto “The Passengers” con Brian Eno. La strofa è tutta sostenuta da campionamenti simili a quelli dei Kraftwerk, e si apre solo leggermente al suono acustico nel ritornello. Bono sfodera in seconda battuta un falsetto degno di MacPhisto. Il pezzo funziona alla grande, in tutta la sua stranezza.
This is where you can reach me now è un omaggio ai Clash, e avvolge piacevolmente l’ascoltatore con il suo giro tra il reagge e il funky. Nella strofa alla parte ritmica sembra quasi di ascoltare i Franz Ferdinand.
Il disco è chiuso dall’ipnotica The troubles, in cui si può apprezzare quell’atmosfera malinconica tipica delle desolate costiere irlandesi, grazie soprattutto a un arrangiamento pieno di archi e violini, e alla dolcissima voce della cantante svedese Likke Li. Un pezzo magico, davvero. Non ascoltatela prima di andare a dormire, potreste sognare labirinti o qualcosa del genere!
Insomma Songs of Innocence (titolo ispirato dall’omonimo poema di William Blake) non è il miglior disco degli U2, non è il più ispirato, non è il più epico, ma è uno dei meglio realizzati (grazie anche alla produzione di Danger Mouse), e contiene alcune delle canzoni più belle che io abbia mai sentito. È il lavoro migliore che abbiano realizzato da vent’anni a questa parte, ed è un gran disco. E (scusate l’espressione) non ci sono cazzi!

Voto: 7.5/10