Red hot chili
peppers: “Blood sugar sex magik”
Quando si passa
dall’essere bambini all’essere adolescenti si sente il bisogno di dare a se
stessi un’identità più marcata.
Credo sia capitato un po’
a tutti, e lo stesso accadde anche a me.
Così, quando iniziai
la così detta “scuola media” accantonai Squérez
dei Lunapop (è inutile che sorridete, scommetto che voi a quell’età ascoltavate
anche di peggio!) e iniziai a prestare attenzione a gruppi che per me erano
degli alieni.
Inizialmente non li
ascoltavo nemmeno, m’incuriosivano le copertine, le loro pose, le loro facce.
Un giorno andai a fare
i compiti a casa di un mio amico. Parlammo di musica, lui ne sapeva meno di me,
ma suo padre aveva nella propria collezione di dischi All That you can’t leave behind, un album degli U2.
In quegli anni mi
lasciavo guidare dalle sensazioni più di ora, e pensai che sarebbe stato
davvero “figo” se avessi detto che quello era il mio gruppo preferito.
Un nome strano, una
copertina quasi in bianco e nero con quattro tizi che stavano per prendere un
volo o un treno da una qualche stazione. (Tranquilli, non ho sbagliato
recensione).
Era la mia
emancipazione, il mio modo per distinguermi e contemporaneamente per conoscere
meglio me stesso e gli altri.
A Natale i miei
parenti mi regalarono una raccolta fresca fresca di quel gruppo. E poco dopo
ricevetti le copie di un Best of dei
Rem e di Californication dei Red Hot.
Quelli furono i primi
tre album che ascoltai sul serio.
Se non avessi avuto
quei regali, invece di leggere queste noiosissime righe, ora stareste facendo
qualcosa di costruttivo per voi stessi e per la società. Chiedo venia!
Ad ogni buon conto, Blood sugar sex magik lo ascoltai solo
un paio di anni dopo. E in quello stesso istante compresi che i veri Red hot
chili peppers, quelli che mi piacevano sul serio, erano lì dentro.
Quest’album
rappresenta un punto di svolta nella carriera dei californiani, uno stacco tra
il disco con pochissima melodia (Mother’s
Milk) che venne prima, e quelli tendenti a un pop più accessibile a tutti,
che seguirono dopo.
Tenendo insieme i
nuovi e i vecchi R.H.C.P (senza annullarli entrambi) questo lavoro è una sorta
di prodigio.
Il marchio di fabbrica
è senza ombra di dubbio il basso di Flea, una specie d’incontenibile forza
della natura, che regala all’intero album (datato 1991) un groove che raggiunge
picchi inaccessibili per qualsiasi altra band.
La sezione ritmica è
completata dall’ottimo lavoro di Chad Smith.
Anche la voce di
Anthony Kieds fa la sua parte, e che se ne dica, con la sua irrisolutezza rende
le canzoni più attrattive e sbandate, un po’ come l’intero gruppo all’epoca.
Frusciante si limita a
un ruolo di “gregario”, che svolge in maniera egregia, abbellendo molte delle
potenti composizioni con le giuste note che appaiono campate in aria, ma che in
realtà colpiscono dritto al bersaglio dell’ascoltatore.
Non posso, però, non
citare il lavoro di Rick Rubin, una sorta di luminare della produzione.
Grazie anche alla sua
sapiente opera, quest’album svaria dal funky al rap, dal rock all’heavy metal,
senza risultare farraginoso.
I temi sono quelli
della droga, la sessualità. Il linguaggio è forte.
Un disco figlio del
suo tempo e dei problemi dei propri realizzatori, che resta di un'attualità
sconcertante.
Vi cito solo qualche pezzo: The power of equality, Breaking
the girl, Suck my Kiss, Give it away, e in fine l’indimenticabile Under the bridge.
Vi dicono qualcosa?
Bè, se non vi dicono
nulla, è arrivato il momento di fare ammenda e di ascoltare questo pezzo di
storia della musica.
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