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sabato 20 settembre 2014

Red hot chili peppers, "Blood sugar sex magik"



Red hot chili peppers: “Blood sugar sex magik”




Quando si passa dall’essere bambini all’essere adolescenti si sente il bisogno di dare a se stessi un’identità più marcata.
Credo sia capitato un po’ a tutti, e lo stesso accadde anche a me.
Così, quando iniziai la così detta “scuola media” accantonai Squérez dei Lunapop (è inutile che sorridete, scommetto che voi a quell’età ascoltavate anche di peggio!) e iniziai a prestare attenzione a gruppi che per me erano degli alieni.
Inizialmente non li ascoltavo nemmeno, m’incuriosivano le copertine, le loro pose, le loro facce.
Un giorno andai a fare i compiti a casa di un mio amico. Parlammo di musica, lui ne sapeva meno di me, ma suo padre aveva nella propria collezione di dischi All That you can’t leave behind, un album degli U2.
In quegli anni mi lasciavo guidare dalle sensazioni più di ora, e pensai che sarebbe stato davvero “figo” se avessi detto che quello era il mio gruppo preferito.
Un nome strano, una copertina quasi in bianco e nero con quattro tizi che stavano per prendere un volo o un treno da una qualche stazione. (Tranquilli, non ho sbagliato recensione).
Era la mia emancipazione, il mio modo per distinguermi e contemporaneamente per conoscere meglio me stesso e gli altri.
A Natale i miei parenti mi regalarono una raccolta fresca fresca di quel gruppo. E poco dopo ricevetti le copie di un Best of dei Rem e di Californication dei Red Hot.
Quelli furono i primi tre album che ascoltai sul serio.
Se non avessi avuto quei regali, invece di leggere queste noiosissime righe, ora stareste facendo qualcosa di costruttivo per voi stessi e per la società. Chiedo venia!
Ad ogni buon conto, Blood sugar sex magik lo ascoltai solo un paio di anni dopo. E in quello stesso istante compresi che i veri Red hot chili peppers, quelli che mi piacevano sul serio, erano lì dentro.
Quest’album rappresenta un punto di svolta nella carriera dei californiani, uno stacco tra il disco con pochissima melodia (Mother’s Milk) che venne prima, e quelli tendenti a un pop più accessibile a tutti, che seguirono dopo.
Tenendo insieme i nuovi e i vecchi R.H.C.P (senza annullarli entrambi) questo lavoro è una sorta di prodigio.
Il marchio di fabbrica è senza ombra di dubbio il basso di Flea, una specie d’incontenibile forza della natura, che regala all’intero album (datato 1991) un groove che raggiunge picchi inaccessibili per qualsiasi altra band.
La sezione ritmica è completata dall’ottimo lavoro di Chad Smith.
Anche la voce di Anthony Kieds fa la sua parte, e che se ne dica, con la sua irrisolutezza rende le canzoni più attrattive e sbandate, un po’ come l’intero gruppo all’epoca.
Frusciante si limita a un ruolo di “gregario”, che svolge in maniera egregia, abbellendo molte delle potenti composizioni con le giuste note che appaiono campate in aria, ma che in realtà colpiscono dritto al bersaglio dell’ascoltatore.
Non posso, però, non citare il lavoro di Rick Rubin, una sorta di luminare della produzione.
Grazie anche alla sua sapiente opera, quest’album svaria dal funky al rap, dal rock all’heavy metal, senza risultare farraginoso.
I temi sono quelli della droga, la sessualità. Il linguaggio è forte.
Un disco figlio del suo tempo e dei problemi dei propri realizzatori, che resta di un'attualità sconcertante.
Vi cito solo qualche pezzo: The power of equality, Breaking the girl, Suck my Kiss, Give it away, e in fine  l’indimenticabile Under the bridge.
Vi dicono qualcosa?
Bè, se non vi dicono nulla, è arrivato il momento di fare ammenda e di ascoltare questo pezzo di storia della musica.
                                                                                             
Voto: 8/10

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