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mercoledì 3 settembre 2014

Recensione: Radiohead, "The bends"



Radiohead: “The bends”


Se i Led Zeppelin, i Beatles, i Doors, i Pink Floyd, gli Who, i Deep Purple, i Queen, i R.E.M., e gli U2 sono stati i migliori gruppi degli anni 60’, 70’ e 80’, per me i migliori dei 90’ e primi duemila sono certamente i Radiohead.
Perché?
Perché non si sono limitati a riproporre in chiave nuova vecchi stilemi rock (cosa che hanno invece fatto molti gruppi grunge, pur producendo dei capolavori come Nevermind dei Nirvana e Ten dei Pearl Jam), ma hanno saputo inaugurare un nuovo corso in quel genere musicale, salvandolo da una disfatta che sarebbe stata inevitabile.
Sia chiaro, non sto dicendo che il grunge sia un genere secondario, anche a me piace molto, ma io ho sempre amato gli audaci. E i Radiohead lo sono stati più di altri loro contemporanei.
Perché allora non parlare del loro disco più sperimentale Kid A, oppure del capolavoro Ok computer?
La risposta è quasi infantile. Quando vado a letto e lo ascolto, prima di chiudere gli occhi, quest’album mi trasmette un’emozione più forte. E la musica è anzitutto un sentimento. Come prima cosa deve farti accapponare la pelle, altrimenti tanto vale ascoltare i rumori esanimi di una qualche fabbrica, che sono sicuramente più interessanti di note sparse a zonzo tanto per dimostrare una supposta bravura tecnica.
La storia di questo disco ha inizio già dalla sua copertina: un manichino, un essere artificiale che sembra prender vita, accennando a una qualche forma di emozione.
I Radiohead donano l’esistenza a quest’androide, sottolineando attraverso la sua figura, il marciume di un sistema che si sta inchinando alle nuove frontiere della scienza e della tecnologia, senza nemmeno domandarsi fino a che punto è lecito spingersi, e fino a che punto questo eccesso di “ meccanicismo”possa essere costruttivo per l’umanità.
Anche solo musicalmente il gioco vale la candela. The bends si caratterizza per la sua unitarietà sonora, e per l’altissimo livello di tutte le dodici composizioni.
Molti grandi dischi hanno il difetto di calare, in quanto a ispirazione, durante l’ultima parte. Non questo. Questo parte come un treno (ovviamente non uno dei nostri bolidi molisani eh!) che non fa fermate e che arriva a destinazione senza intoppi.
Con la giusta alchimia tra elettronica e un rock semplice e naturale, l’album è piacevolissimo già dal primo ascolto, e nonostante ciò non smette mai di stupire.
Stupiscono invece la versatilità e la potenza espressiva della voce di Thom Yorke, un intreccio di chitarre che non nasconde accenti “udueschi”, e una capacità di scrittura fuori dal comune.
In questo senso v’invito a leggere il testo di Fake plastic trees, che non posso qui proporre integralmente e che mi costerebbe troppo dissezionare.
4 minuti e 51 secondi di brividi, che surclassano ampiamente lo status di semplice canzone. Il mio pezzo preferito dell’intera produzione della band inglese.
Volete ascoltare un brano semplice, rilassante ma che abbia un senso? Mettete su High and dry, e godetevi lo splendido falsetto di Yorke e una melodia mozzafiato.
O preferite forse una canzone più cattiva, più rockettara? E va bene, eccovi The bends, un rock vigoroso ma non convenzionale che placherà la vostra sete di suoni distorti.
Non vi basta? Allora c’è anche questo pezzuccio con un accento brit-rock, si chiama Just, e un suo compare leggermente più elettronico di nome Planet telex.
Volete le chitarre acustiche e un ritornello che non vi abbandonerà più? Ce n’è per tutti signori, queste sono Nice dream e Black star.
Ma se proprio siete degli incontentabili, e non vi bastano questi gioielli, non abbiate timore.
Anche il più pretenzioso di voi crollerà dopo aver prestato orecchio all’ultima Street spirit (fade out), e con somma soddisfazione penserà tra sé e sé: -Grazie al cielo, qualcuno ha creato questo piccolo miracolo!-.

Voto: 8.5/10

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