Radiohead: “The bends”
Se i Led Zeppelin, i
Beatles, i Doors, i Pink Floyd, gli Who, i Deep Purple, i Queen, i R.E.M., e
gli U2 sono stati i migliori gruppi degli anni 60’, 70’ e 80’, per me i
migliori dei 90’ e primi duemila sono certamente i Radiohead.
Perché?
Perché non si sono
limitati a riproporre in chiave nuova vecchi stilemi rock (cosa che hanno
invece fatto molti gruppi grunge, pur producendo dei capolavori come Nevermind dei Nirvana e Ten dei Pearl Jam), ma hanno saputo
inaugurare un nuovo corso in quel genere musicale, salvandolo da una disfatta
che sarebbe stata inevitabile.
Sia chiaro, non sto
dicendo che il grunge sia un genere secondario, anche a me piace molto, ma io
ho sempre amato gli audaci. E i Radiohead lo sono stati più di altri loro
contemporanei.
Perché allora non
parlare del loro disco più sperimentale Kid
A, oppure del capolavoro Ok computer?
La risposta è quasi
infantile. Quando vado a letto e lo ascolto, prima di chiudere gli occhi,
quest’album mi trasmette un’emozione più forte. E la musica è anzitutto un
sentimento. Come prima cosa deve farti accapponare la pelle, altrimenti tanto
vale ascoltare i rumori esanimi di una qualche fabbrica, che sono sicuramente
più interessanti di note sparse a zonzo tanto per dimostrare una supposta
bravura tecnica.
La storia di questo
disco ha inizio già dalla sua copertina: un manichino, un essere artificiale
che sembra prender vita, accennando a una qualche forma di emozione.
I Radiohead donano
l’esistenza a quest’androide, sottolineando attraverso la sua figura, il
marciume di un sistema che si sta inchinando alle nuove frontiere della scienza
e della tecnologia, senza nemmeno domandarsi fino a che punto è lecito
spingersi, e fino a che punto questo eccesso di “ meccanicismo”possa essere
costruttivo per l’umanità.
Anche solo
musicalmente il gioco vale la candela. The
bends si caratterizza per la sua unitarietà sonora, e per l’altissimo
livello di tutte le dodici composizioni.
Molti grandi dischi
hanno il difetto di calare, in quanto a ispirazione, durante l’ultima parte.
Non questo. Questo parte come un treno (ovviamente non uno dei nostri bolidi
molisani eh!) che non fa fermate e che arriva a destinazione senza intoppi.
Con la giusta alchimia
tra elettronica e un rock semplice e naturale, l’album è piacevolissimo già dal
primo ascolto, e nonostante ciò non smette mai di stupire.
Stupiscono invece la
versatilità e la potenza espressiva della voce di Thom Yorke, un intreccio di
chitarre che non nasconde accenti “udueschi”, e una capacità di scrittura fuori
dal comune.
In questo senso v’invito
a leggere il testo di Fake plastic trees, che non posso
qui proporre integralmente e che mi costerebbe troppo dissezionare.
4 minuti e 51 secondi
di brividi, che surclassano ampiamente lo status di semplice canzone. Il mio
pezzo preferito dell’intera produzione della band inglese.
Volete ascoltare un
brano semplice, rilassante ma che abbia un senso? Mettete su High
and dry, e godetevi lo splendido falsetto di Yorke e una melodia
mozzafiato.
O preferite forse una
canzone più cattiva, più rockettara? E va bene, eccovi The bends, un rock
vigoroso ma non convenzionale che placherà la vostra sete di suoni distorti.
Non vi basta? Allora
c’è anche questo pezzuccio con un accento brit-rock, si chiama Just,
e un suo compare leggermente più elettronico di nome Planet telex.
Volete le chitarre
acustiche e un ritornello che non vi abbandonerà più? Ce n’è per tutti signori,
queste sono Nice dream e Black star.
Ma se proprio siete degli
incontentabili, e non vi bastano questi gioielli, non abbiate timore.
Anche il più
pretenzioso di voi crollerà dopo aver prestato orecchio all’ultima Street
spirit (fade out), e con somma soddisfazione
penserà tra sé e sé: -Grazie al cielo, qualcuno ha creato questo piccolo
miracolo!-.
Voto: 8.5/10
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