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domenica 14 settembre 2014

De Gregori, "La valigia dell'attore"



Francesco De Gregori: “La valigia dell’attore”




Quando sei solo un timoroso ragazzino di nove o dieci anni, e giochi a calcio, lo sai.
Sai quanto è dannatamente difficile tirare quel calcio di rigore, avere sulle spalle la responsabilità dell’intera squadra, gli occhi della gente puntati addosso.
È molto più di un semplice calcio a un pallone, è in gioco la tua stessa reputazione, e nonostante la tua giovanissima età questo lo capisci perfettamente.
Anch’io lo capivo.
Presi una lunga rincorsa e buttai dentro tutto il fiato che potevo, ma quel rigore lo tirai fuori.
L’insicurezza mi avvolse come un cobra che vuole stritolarti.
Di tanto in tanto quel bizzarro serpente torna a farmi compagnia, ma per fortuna non mi sono lasciato soffocare. O almeno non del tutto.
Francesco De Gregori ha saputo sintetizzare la complessità di uno stato d’animo attraverso pochi, semplici versi. E già per questo andrebbe idolatrato a vita.
Quand’ero bambino spesso la domenica mattina mi risvegliavo con una delle sue canzoni. Mio padre metteva su Titanic o Pablo, o qualchedun’altra.
Era inevitabile per me affezionarmi a questo disco.
A quei tempi, come avrete ben capito, giocavo a calcio nelle giovanili del mio paese. Ero abbastanza bravo, ma non credevo troppo in me stesso, e così mi capitava di ascoltare La leva calcistica della classe 68’ e di sentirmi rincuorato alle parole “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è certo da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia.”
Una metafora della vita.
Quante canzoni indimenticabili ci sono in questo doppio cd live?
Molte, forse troppe.

Titanic era la mia sveglia della domenica. Una canzone arzilla che mescola ritmi popolari a un testo sull’immigrazione. Interessantissimo, peraltro, l’intermezzo percussionistico presente in questa versione dal vivo.   
Il mio verso preferito di Generale era indubbiamente “in mezzo al prato c’è una contadina, curva sul tramonto, sembra una bambina”. Quante ne avevo viste di contadine ricurve a cogliere le verdure, o addirittura a zappare. Tutte le cose che scriveva De Gregori, io le avevo davanti agli occhi.
Ecco, direi che la peculiarità di questo cantautore è quella di rendere vive le immagini dei suoi brani.
Riuscite a figurarvi “Alice che guarda i gatti” durante un pomeriggio estivo in un piccolo paesello, magari del sud? Credo che non vi sarà difficile associare delle immagini, o dei ricordi a queste parole.
E di certo non è difficile innamorarsi perdutamente di una canzone come Rimmel: “e qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure. E cancello il tuo nome dalla mia facciata, e confondo i miei alibi e le tue ragioni, i miei alibi e le tue ragioni”. Probabilmente assieme a La donna cannone il pezzo più bello di De Gregori.
Un’altra delle cose che mi ha sempre affascinato di questo cantautore, sin da quando ero piccolo, è l’ambivalenza dei suoi testi. Dei testi aperti a diverse interpretazioni, come ha peraltro ammesso egli stesso, e che appunto per questo diventano degli inni epocali.
Pensate a La Storia, scritta nel 1985 e ancora oggi simbolo di una generazione di giovanissimi.
Quella di De Gregori non è semplice scrittura di protesta e, al pari di quella di Bob Dylan, non si lascia ingabbiare dal tempo, dal suo inesorabile scorrere. Anzi in maniera quasi profetica riesce a cogliere l’essenza di diverse epoche, poiché i secoli si susseguono, ma noi uomini continuiamo ad avere gli stessi vizi e difetti, riducendo vertiginosamente le nostre già esigue virtù.  
Una musica impregnata di tradizione popolare accompagna questi versi.
Molti accusano, non a torto, il cantore romano di stravolgere eccessivamente i suoi brani nelle esecuzioni dal vivo. In quest’album non è così, e anche quei piccoli cambiamenti nella melodia rendono il tutto più fluido e moderno.
Se De Andrè è stato il più grande cantautore italiano, certamente possiamo definire De Gregori come il più grande menestrello che la musica nostrana abbia mai avuto. E quello di menestrello non è affatto un epiteto dispregiativo, considerando che i cantautori altro non sono che discendenti di questa figura.
A me poi sono sempre piaciuti i menestrelli… riescono a tramutare il più insulso racconto, in un’epica avventura. E da questo tipo di avventure si apprende più vita di quanta ce ne possa essere in cento libri di altrettanti pretenziosi professoroni.

                                                        Voto: 8.5//10


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