Francesco De Gregori: “La valigia
dell’attore”
Quando sei solo un
timoroso ragazzino di nove o dieci anni, e giochi a calcio, lo sai.
Sai quanto è
dannatamente difficile tirare quel calcio di rigore, avere sulle spalle la
responsabilità dell’intera squadra, gli occhi della gente puntati addosso.
È molto più di un
semplice calcio a un pallone, è in gioco la tua stessa reputazione, e nonostante
la tua giovanissima età questo lo capisci perfettamente.
Anch’io lo capivo.
Presi una lunga
rincorsa e buttai dentro tutto il fiato che potevo, ma quel rigore lo tirai
fuori.
L’insicurezza mi
avvolse come un cobra che vuole stritolarti.
Di tanto in tanto quel
bizzarro serpente torna a farmi compagnia, ma per fortuna non mi sono lasciato
soffocare. O almeno non del tutto.
Francesco De Gregori
ha saputo sintetizzare la complessità di uno stato d’animo attraverso pochi,
semplici versi. E già per questo andrebbe idolatrato a vita.
Quand’ero bambino
spesso la domenica mattina mi risvegliavo con una delle sue canzoni. Mio padre
metteva su Titanic o Pablo, o qualchedun’altra.
Era inevitabile per me
affezionarmi a questo disco.
A quei tempi, come
avrete ben capito, giocavo a calcio nelle giovanili del mio paese. Ero
abbastanza bravo, ma non credevo troppo in me stesso, e così mi capitava di
ascoltare La leva calcistica della classe 68’ e di
sentirmi rincuorato alle parole “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di
rigore, non è certo da questi particolari che si giudica un giocatore. Un
giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia.”
Una metafora della
vita.
Quante canzoni
indimenticabili ci sono in questo doppio cd live?
Molte, forse troppe.
Titanic era la mia sveglia della domenica.
Una canzone arzilla che mescola ritmi popolari a un testo sull’immigrazione. Interessantissimo,
peraltro, l’intermezzo percussionistico presente in questa versione dal vivo.
Il mio verso preferito
di Generale
era indubbiamente “in mezzo al prato c’è una contadina, curva sul tramonto,
sembra una bambina”. Quante ne avevo viste di contadine ricurve a cogliere le
verdure, o addirittura a zappare. Tutte le cose che scriveva De Gregori, io le
avevo davanti agli occhi.
Ecco, direi che la
peculiarità di questo cantautore è quella di rendere vive le immagini dei suoi
brani.
Riuscite a figurarvi
“Alice che guarda i gatti” durante un pomeriggio estivo in un piccolo paesello,
magari del sud? Credo che non vi sarà difficile associare delle immagini, o dei
ricordi a queste parole.
E di certo non è
difficile innamorarsi perdutamente di una canzone come Rimmel: “e qualcosa
rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure. E cancello il tuo nome dalla
mia facciata, e confondo i miei alibi e le tue ragioni, i miei alibi e le tue
ragioni”. Probabilmente assieme a La donna cannone il pezzo più
bello di De Gregori.
Un’altra delle cose che
mi ha sempre affascinato di questo cantautore, sin da quando ero piccolo, è
l’ambivalenza dei suoi testi. Dei testi aperti a diverse interpretazioni, come
ha peraltro ammesso egli stesso, e che appunto per questo diventano degli inni
epocali.
Pensate a La
Storia, scritta nel 1985 e ancora oggi simbolo di una generazione di
giovanissimi.
Quella di De Gregori
non è semplice scrittura di protesta e, al pari di quella di Bob Dylan, non si
lascia ingabbiare dal tempo, dal suo inesorabile scorrere. Anzi in maniera
quasi profetica riesce a cogliere l’essenza di diverse epoche, poiché i secoli
si susseguono, ma noi uomini continuiamo ad avere gli stessi vizi e difetti,
riducendo vertiginosamente le nostre già esigue virtù.
Una musica impregnata
di tradizione popolare accompagna questi versi.
Molti accusano, non a
torto, il cantore romano di stravolgere eccessivamente i suoi brani nelle
esecuzioni dal vivo. In quest’album non è così, e anche quei piccoli
cambiamenti nella melodia rendono il tutto più fluido e moderno.
Se De Andrè è stato il
più grande cantautore italiano, certamente possiamo definire De Gregori come il
più grande menestrello che la musica nostrana abbia mai avuto. E quello di
menestrello non è affatto un epiteto dispregiativo, considerando che i cantautori
altro non sono che discendenti di questa figura.
A me poi sono sempre
piaciuti i menestrelli… riescono a tramutare il più insulso racconto, in
un’epica avventura. E da questo tipo di avventure si apprende più vita di
quanta ce ne possa essere in cento libri di altrettanti pretenziosi professoroni.
Voto: 8.5//10
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