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martedì 26 marzo 2019

"Nel Mondo", a modo mio

Scrivo questa breve riflessione mentre mi trovo in una sala d'aspetto per la visita medica di un parente che ho accompagnato. Avrei avuto innumerevoli e più consone circostanze per farlo, ma, tant'è, all'urgenza d'esprimersi non si danno appuntamenti né orari.
Da qualche settimana ho preso la decisione di eliminare i profili "social" sui quali ero attivo, e che tentavo di utilizzare maggiormente per la condivisione dei miei scritti e di altre esternazioni di minor conto ma ad ogni modo rispettose dell'altrui sensibilità. La vita come ben sappiamo è connotata dal serio e dal faceto, e non ho mai ritenuto opportuno ridurre al silenzio quest'ultimo aspetto, che stimo altrimenti assolutamente connaturale alla mia esistenza. Di più, non ho mai preteso, e sarei stato uno sciocco nel farlo, che i "social" fossero univoca espressione di tematiche esistenziali e profonde dissertazioni sulla realtà che ci avvolge. Pur ponendomi sempre con atteggiamento critico rispetto al tipo di uso che se ne potesse fare, ho inteso adoperarli prima per un'umana esigenza di riconoscimento comunitario, anche laddove questa fosse autoreferenziale, e poi perché sostenevo, e continuo a sostenere, che se ne possano trarre fruttuosi esiti sebbene a discapito di potenziali distorsioni negative. Evidentemente queste ultime, per quel che concerne la mia personale condizione nell'utilizzo di tali canali comunicativi, rischiavano di prendere il sopravvento. Mi sono risolto a cancellare i miei profili, dunque, per un insieme di motivazioni che vado brevemente ad elencare.
In primo luogo essi erano una consistente fonte di distrazione, il che non è di per se un elemento malvagio, ma avendo a disposizione moltissime altre e migliori riserve cui attingere al riguardo, i "social" cominciavano ad essermi d'intralcio. Da qualche giorno stavo infatti cercando di immergermi nella lettura di un libro assai interessante e parimenti scritto in linguaggio specifico di non semplice fruizione: ebbene facevo fatica a riuscirvi, ed ogni qualvolta la lettura diveniva eccessivamente impegnativa fuggivo verso lo schermo del mio cellulare in cerca di più facili  scappatoie. 
Ma (quasi) tutto quel che trovavo urtava la mia intelligenza ed emotività, e non da ultimo il buon senso, al punto che cominciavo a chiedermi cosa ci facessi, io, nonostante i tanti miei difetti, in quel grondaio d'approssimazione e malelingue, assorbito dalla giungla d'estemporanee esternazioni sintomatiche d'indisposizioni fisiche ed emotive mal incanalate, nell'assurda pretesa di sviscerare una verità che si voleva assoluta, e che non poteva essere se non relativa. Ci facevo, forse, quel che pochi altri internauti (quale termine obsoleto), con immani difficoltà, si sforzano di fare, ovvero "stare nel mondo" sapendo di farne piena parte, impegnandosi stoicamente nel non lasciarsene cannibalizzare, bensì relazionandosi, per quanto possibile, in maniera dialettica con esso. 
Ebbene, l'elevata soglia di sopportazione, l'erudita impassibilità ottenuta a colpi di vivida e disincantata esperienza, non è mai stata una delle mie migliori qualità. Così ho ceduto alla volontà di mandare tutto quel ciarpame a farsi benedire, ed eccomi qui, a non crogiolarmi giammai nella vile illusione  d'essermi sbarazzato delle tante brutture che permangono nella nostra società, ma augurandomi, quantomeno, d'essermi tolto d'impiccio da una delle tante incongruenze che mi, e ci, contraddistinguono.
Ora, non ricordo bene quale filosofo disse che bisognava guardarsi dal cattivo gusto di voler essere amici di tutti, ma in effetti aveva le sue buone ragioni. Di amici ne ho davvero pochi, credo anche e soprattutto a causa mia. Nonostante questo non amo esprimermi cinicamente, mi piace invece essere educato anche nei riguardi di chi non apprezzo particolarmente, esimendomi, ovviamente, dal prostrarmi con deferenza al suo cospetto. Ma cos'è leggere post feroci, discriminatori, ignoranti, follemente iracondi, goffamente assurdi, vomitevoli sentenze purificatorie che nemmeno la peggior Inquisizione, e starsene lì buoni in silenzio? Cos'è questa se non deferenza o al più indifferenza?
Rispetto il diritto d'opinione di tutti, ma nel merito, laddove ne vedo l'urgenza, sento l'istinto e l'opportunità d'intervenire. Questo bisogno si scontra con la necessità del "quieto vivere" che ugualmente bramo, come la maggior parte dei miei simili. 
Infine estraniandomi da questa parte di mondo virtuale, stavolta in maniera totale, non posso che guadagnarne in termini di tempo, coerenza e salute.
E a tutti coloro che, genuinamente, si ostinano a prenderne parte, rivolgo la preghiera di segnalarmi le proprie manifestazioni, austere o frivole che siano, in modo che io possa fruirne tramite differenti canali. 
Ancora a loro, con riguardo all'ambito delle "reti telematiche sociali" cui ho fatto riferimento in questo scritto, auguro migliore sorte, e maggior saggezza di quanta ne possa aver usata io.

sabato 9 marzo 2019

La perfezione esiste



Un paio di settimane fa gironzolavo ansioso nei pressi del nostro bel castello, nell'arduo tentativo di realizzare una foto che rendesse il senso del movimento, come richiesto dall'insegnate del corso fotografico che sto frequentando.
Stavo per gettare la spugna, quando d'un tratto mi ha travolto quello che, con un eufemismo, potremmo definire un "gran colpo di fortuna": un bimbo sguscia fuori da un vicoletto, inseguito dal suo cucciolo preferito. Un momento estatico, di gioia assoluta, che parla da solo.
Ho colto quel momento, l'ho fissato nell'obiettivo della mia macchinetta, lasciandone intatto il ritmo, il battito, il senso.
Forse la perfezione esiste, anche se dura solo un attimo, il tempo di non lasciarle crescere attorno altre idee che la soffochino.
Un po' come quando, da bambini, si correva senza alcuna meta,  con il sudore che grondava copioso dalla nostra fronte.
Alla ricerca di nulla.
Tutto quello di cui sentivamo il bisogno, era racchiuso in quell'attimo.

giovedì 7 marzo 2019

Gli affreschi del castello di Gambatesa e un mistero ancora irrisolto



Nel 1656-1657 anche Gambatesa, come tutto il Regno di Napoli, fu colpita dalla peste.
All’epoca nel nostro territorio vigeva l’obbligo, ancor prima che la consuetudine, di ricoprire con la calce viva le mura interne, al fine di “disinfettare l’ambiente”. Tale pratica è testimoniata dai colpi di piccozza visibili ancora oggi su alcune pareti del castello, attuati proprio per permettere alla calce di aderire meglio.
Tradizionalmente, e forse in maniera approssimativa, si ritiene che da quel momento fino al primo intervento di restauro interno, avvenuto tra il 1977 e il 1978, tutti gli affreschi siano stati ricoperti dall’ossido di calcio e da diversi strati d’intonaco addizionati nel corso degli anni. Questa tesi è suffragata dalle testimonianze di chi ha preso parte al primo intervento di restauro, da molti di coloro che frequentarono il castello tra gli anni 50’ e 70’, nonché dalla penuria di documenti storici che facciano menzione delle raffigurazioni pittoriche.
In realtà già nel suo “Apprezzo del feudo di Gambatesa”, realizzato tra il 1697 e il 1698, nel descrivere il nostro castello, Giuseppe Parascandalo affermava: “s’entra in una sala quadra con intempiatura, muro pittato a friso, a destra, ed in testa di detta sala, vi sono quattro stanze con intempiatura”.
A poco più di quarant’anni dall’avvento della peste, dunque, almeno alcune porzioni di affresco dovevano essere nuovamente ben visibili.
Inoltre, spesso le memorie riportate si rivelano discordanti: alcuni anziani con cui ho avuto modo di chiacchierare al riguardo, ricordano che, tra gli anni 50’ e 60’ del secolo scorso, determinati affreschi erano distinguibili.
Oggi, grazie all’instancabile lavoro di ricerca del Prof. Salvatore Abiuso, custode della biblioteca comunale, abbiamo un nuovo elemento che va a complicare ulteriormente questo già intricato enigma: un documento ufficiale del 1933, reperito nell’archivio storico del comune, riporta una descrizione sommaria del nostro maniero, nelle cui righe finali si legge “alcune sale contengono degli antichissimi affreschi, discretamente conservati”.
Ebbene, nel 1933 diversi affreschi si vedevano, e chiaramente.
È possibile che negli anni 70’, come sembra testimoniare la foto riportata a corredo di quest’articolo, non fosse più così? Erano stati nuovamente ricoperti e intonacati? Se così fosse, quale fu il motivo, e quale il periodo della nuova intonacatura?
Allo stato attuale delle cose, non è possibile rispondere univocamente a queste domande.
Quello che appare certo, però, è che i pregiati lavori di Donato Decumbertino abbiano traversato alterne vicende, uscendo in qualche modo “vincenti” e, per lo più, indenni dall’incessante scorrere del tempo e degli eventi.

La vecchia bottega d'un sarto



Intonaci color catrame chiaro tappezzati di ritagli di giornale, calendari di un'altra era, foto ingiallite ma più vive del ragazzetto con l'iphone che attraversa la strada.
Le grandi e scure macchine da cucire forgiate in ferro pesante, busti di manichini imbottiti, carichi di cappotti cammello e tessuto scozzese.
L'aria odora di tabacco bruciato, che fuma da una sigaretta di cui è rimasta per lo più cenere. Un uomo sulla sessantina lavora placido e accorto: pare che al di fuori di questo momento, di questo spazio fiabesco e inafferrabile, non esista null'altro.
Sarà l'effetto che trasmette chi ama ciò che fa.
Il sentore di un mondo che, lentamente ma in maniera inesorabile, continua a scomparire.

Il suono del noce



C'era un grande noce che affondava le sue robuste radici affondo nell'aspro terreno, di fronte alla radura.
Le sue fronde si muovevano grevi al debole soffio del rovente vento estivo.
Piccoli uomini dalla forza erculea dissodavano il suolo intorno: affondavano con veemenza i propri arnesi nella terra riarsa dal sole cocente.
La pelle scura cotta dal duro lavoro quotidiano, le piaghe sul volto, i calli sulle grosse mani.
I bambini si riposavano nell'ora più calda, giocando ad acchiapparella sotto l'ombra refrigerante del "grande vecchio".
Le donne stendevano la tovaglia su un timido prato pagliericcio, poco discosto. Tagliavano il pane e il formaggio fresco di capra, versavano il vino.
Si lavorava poi ancora, per ore ed ore, e giungeva il tramonto, che illuminava i lunghi passi che conducevano al ritorno, a casa. Poco più che un ovile.
Una partita a carte, una zuppa di fave, due chiacchiere prima di coricare le proprie membra stanche, per attendere un nuovo giorno.
Il grande noce restava lì silente, quieto. Solo le foglie bisbigliavano qualche mormorio di tanto in tanto.
E quando lo facevano, il loro suono giungeva alle finestre aperte dei braccianti: così sentivano la voce del vecchio, imperturbabile  arbusto, che tenue augurava loro un po' di riposo, durante la breve notte.

Dove stiamo andando?



"Ci sono storie da raccontare che non sono canzoni".
Così leggevo qualche anno fa, in un bel libro del giornalista musicale Niall Stokes. Una frase lapidaria per riaffermare che non tutto può essere condensato in una rappresentazione artistica della realtà, sia essa un dipinto, un'opera lirica o una qualunque altra manifestazione "estetica".
L'arte, in tutte le sue variegate sfaccettature, ha sempre avuto molto a che fare con la vita quotidiana, con le problematiche umane, più o meno profonde.
In un periodo storico in cui l'arte preponderante da un punto di vista mediatico ha smesso di occuparsi di questioni esistenziali, se non con vaghi riferimenti di circostanza a dir poco approssimativi, non mi stupisco affatto della deriva generale che sta prendendo la società in cui viviamo.
C'è chi si riferisce agli "altri" come a dei "barbari", ovviamente nell'accezione deteriore del termine, da scacciare a qualunque costo. D'altro canto c'è anche chi inauditamente non percepisce, o finge di non percepire, tensioni tumultuose in seno alla comunità, non certo giustificabili nelle loro aberranti esternazioni di ignoranza, ma comprensibili alla luce di mancate risposte e assordanti silenzi da parte delle istituzioni e della migliore "intelligentia" globale.
Alcune questioni affondano le proprie radici nella natura stessa dell'uomo, oltre che in processi storici lunghi secoli se non millenni. E sono complicate da affrontare.
Non sarò mai dalla parte di chi dimentica innanzitutto di essere Umano, di dover usare la ragione e la coscienza, puntando sempre alla migliore soluzione possibile per il bene comune (ovvero di tutti, nessuno escluso).
Chi, d'altra parte, snobba tali problematiche ergendosi sul tetto del proprio benessere, coltivando la non curanza, non fa altro che fomentare posizioni di odio e rancore.
Dove stiamo andando? Esattamente dove ci portano due nemici agli antipodi, ma che lavorano bene insieme: l'indifferenza e la rabbia.

Non di solo pane, ma anche



Siamo nel periodo di raccolta delle olive (tempo meteorologico permettendo), e dunque mi pare opportuno esternare una considerazione che mi porto dietro da qualche anno.
Non di rado mi è capitato di leggere e sentire sedicenti intellettuali apostrofare sarcasticamente l'olivicoltura o la vendemmia, lasciando intendere che si tratti di attività da villani (nel senso deteriore che il termine ha assunto) ignoranti.
Certo, nessuno vuol mettere in dubbio che esistano questioni estremamente più importanti e dirimenti, e che bisogni nutrire il proprio intelletto anche con ben altri contenuti.
Ma è giusto mancare di rispetto, senza fare alcuna distinzione, a chi si impegna personalmente per la raccolta e trasformazione dei prodotti della propria terra?
Fin dall'antichità l'olio di buona qualità era considerato foriero di proprietà benefiche, se non addirittura terapeutiche, per il nostro organismo.
Alla luce delle più moderne ricerche, tale tesi è stata rafforzata, e un misurato consumo di tale prodotto è altamente consigliato dagli specialisti.
Senza considerare la portata sociale e culturale che tali pratiche rivestono, specie se ancora attuate in maniera tradizionale, consiglio a questi arroganti tuttologi di rimboccarsi le maniche, salire su un albero, cogliere il frutto, riporlo nelle cassette e trasportarlo al frantoio per la molitura.
Il loro fisico e la loro mente non potranno che trarne benefici.
Se poi preferiscono l'olio "lampante" venduto a 3 euro nei supermarket o il vino colmo di solfiti, beh ognuno ha i suoi gusti e la sua salute!
Un'ultima cosa: a volte si impara più da una dura giornata di lavoro in campagna, che in un tanto sofisticato quanto banale convegno.

Re-Mazzarò (2018)



Le "cose" non hanno un valore intrinseco, se non quello che noi attribuiamo loro. È banale, ma ogni tanto bisogna ricordarsene.
Essere eccessivamente attaccati ad un oggetto può essere sintomo di superficialità, o addirittura di avarizia, come nella novella di Verga.
Ma anche l'atteggiamento inverso ha in sé qualcosa di deleterio. Una pratica che, specie nel 2018, nonostante la crisi di valori e il venir meno di un retroterra solido su cui porre delle basi progettuali d'esistenza, è sempre più accentuata dall' esasperato consumismo che ci contraddistingue.
Per questo mi piace "prendermi cura" delle mie cose: pensare che alcune di queste mi accompagnano da tanti anni, e sono ancora in buone condizioni, mi aiuta a riconciliarmi con i sacrifici che i miei nonni e i miei genitori hanno affrontato per farmele avere.
Ecco che alcuni oggetti acquistano valore, e ovviamente non si tratta tanto di un valore economico, quanto affettivo collegato a sua volta ad un atteggiamento "etico".
No, di qui a cent'anni non la porterò certo via con me "la roba", come voleva fare Mazzarò.
Ma nemmeno la getteró il giorno dopo nel cestino, in nome dell'iphone all'ultimo grido o di un maglione griffato da 300 euro.
La novella di Verga che studiammo a scuola è ancora estremamente istruttiva, dal mio punto di vista, e rileggendola nel contesto odierno vi scorgo una  doppia critica: l'una rivolta a chi enfatizza il valore dei beni materiali, l'altra a chi li dà per scontati.

Perché non siamo Sanniti



Amare la propria terra e interessarsi alla sua storia, come il non conoscerla affatto, potrebbe indurci nella facile tentazione di rievocare delle "gloriose" origini e mitologiche discendenze.
Spesso il Molisano si autodefinisce Sannita, supponendo, a volte anche in buona fede, di essere l'erede di un "popolo" celebre per la strenua resistenza che oppose alle più numerose masse romane, di lì a poco assurte a ruolo dominante nell'Occidente europeo.
Se la rilevanza storica e la complessità organizzativa della società sannita non possono essere messe in discussione, alla luce dei più recenti studi, delle evidenze archeologiche, e della semplice analisi dei fatti (le genti italiche che per secoli misero in difficoltà i romani non potevano certo essere un popolo di rozzi pecorari), lo stesso non si può dire della presunta stretta connessione che intercorrerebbe tra i moderni Molisani e questi ultimi.
I Molisani non parlano una lingua elaborata partendo da quella sannita, bensì una lingua figlia del latino (in uso ai Romani) e di varie contaminazioni successive.
I Molisani non professano una religione politeista sul modello sannita; "nemmeno i Romani", obietterà qualcuno. In realtà, come molti di voi sapranno, a partire dai primi anni del IV secolo d.C. il Cristianesimo si diffuse ampiamente nell'Impero, divenendo inesorabilmente la religione di Stato.
Infine da un punto di vista prettamente scientifico probabilmente gli attuali Molisani sono tanto simili agli antichi Romani che ai Sanniti.
L'unico elemento, peraltro non da poco, che condividiamo con il popolo sannita è parte del territorio in cui si era stanziato. Ma della cultura sannita, della sua celebre "resistenza" in quanto "popolo", e non come virtù individuale, poco ci è rimasto.
Faremo allora bene ad interessarci più al nostro territorio nel tentativo di conoscerlo e valorizzarlo, spingendo in tal senso su una politica locale e centrale che lo ha sempre snobbato quando non denigrato, piuttosto che richiamarci ad un passato illustre che non ci appartiene, se non per motivazioni geografiche ed ambientali.
Ed è proprio in virtù della rilevanza di tali motivazioni, e di tante altre positive componenti, che non possiamo crogiolarci nella nostalgia di un'antica grandezza, ma dovremmo batterci per il miglioramento di una preoccupante situazione presente, e per la mancanza di una prospettiva futura.

sabato 2 marzo 2019

La morte dell'uomo?

Il non vago sospetto che nella società attuale, come in tutte quelle che l'hanno preceduta, vi sia un intrinseco fattore di fondamentale disequilibrio e disarmonia, mi ha spinto ad approfondire i miei interessi circa l'origine dell'uomo, la sua natura, i passi che lo hanno condotto ad intraprendere il percorso che sta tutt'oggi seguendo.
Le mie precarissime conoscenze al riguardo derivavano, e per lo più ancora derivano, da riflessioni personali scaturite dall'esperienza diretta e dalle residue nozioni didattiche ed extrascolastiche. Ho cercato dunque di ampliare ed integrare queste fragili consapevolezze, dedicandomi allo studio di autori che hanno speso un'intera esistenza nell'analisi di tali problematiche, non solo compiendo erudite ricerche metodologiche, ma anche vivendo, in maniera piena, sulla propria pelle realtà estremamente distanti dalla nostra.
Mi riferisco alla quotidianità di quei popoli, oggi pressoché estinti, cui sin dal 500' la civiltà occidentale affibbió l'inproprio appellativo di "selvaggi".
A ben vedere la storia dell'umanità, per come ci è stata tramandata attraverso le fonti scritte, è contraddistinta dalla dicotomia tra "barbari e civili".
Nel chiarire tale netta distinzione, operata da uomini delle più disparate epoche fino a giungere a quella contemporanea, ben si presta una riflessione del filosofo francese Montaigne, che già nel sedicesimo secolo affermava: "Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto in ogni sua cosa".
Montaigne, la cui rilevanza nel dipanarsi della tendenziosa dualità tra civiltà e barbarie rimane capitale, non fu certo il primo a porre delle rilevanti questioni in ordine alla faziosità di tali distinzioni: tra gli altri, già i greci Eschilo e Erodoto, con le dovute differenze storico-sociali, avevano marcato l'accento sulle miriadi di sfumature che una così netta separazione poteva indurre.
Quando, dal Cinquecento in poi, la conquista europea dei territori americani condusse allo sterminio di milioni di nativi (se non perpetrato con la violenza, raggiunto tramite la diffusione di malattie mortali per gli indigeni), alla sistematica distruzione delle loro civiltà, e all'assimilazione per lo più forzata dei residui sopravvissuti, i barbari vennero identificati con i selvaggi.
Successivamente, secondo l'evoluzionista ottocentesco L.H. Morgan, quello del selvaggio altro non era che uno stadio dei tre sviluppi della cultura umana, i cui successivi sarebbero stati, per l'appunto, il barbaro ed infine il civile.
Mi piace soffermarmi appena sull'etimologia del termine "selvaggio":  dal latino silvaticus, selvatico, non coltivato, estraneo alla cultura e a tutto ciò che avviene all'interno delle mura della città.
Basterebbe questa definizione per screditare totalmente la visione etnocentrica dell'uomo occidentale ottocentesco: diverse popolazioni considerate da quest'ultimo selvagge vivevano in maestose città, con monumenti che nulla avevano da invidiare a quelli europei. 
Eppure, bisogna andare più a fondo alla questione se si vuole smontare totalmente la visione pregiudizialmente negativa che, in questo preciso istante, milioni di individui continuano ad avere di tutto ciò che non è progredito, sviluppato, moderno. 
In polemica contro le più ciecamente abbagliate tendenze illuministiche del suo tempo, Jean Jacques Rousseau trasse la sua aspra critica della civiltà, causa dei malanni umani, e l'elogio della condizione naturale. 
Dobbiamo a questo punto brevemente addentrarci in quella che viene comunemente definita preistoria, in una delle sue tappe fondamentali: il Neolitico.
Sembrerebbe che tutti gli studiosi moderni siano concordi nell'individuare in questa fase il germinare di quelle che sarebbero state le fondamenta di quasi tutte le società attuali: in primo luogo il graduale abbandono del nomadismo, della caccia e della raccolta, la scoperta della domesticazione e dell'allevamento degli animali, dell'agricoltura. Tali pratiche permisero, nel corso di secoli, di creare un "surplus" alimentare, che a sua volta alimentò l'istituzione di figure non addette al diretto reperimento di sostanze nutritive e all'adempimento di attività vitali, utilitaristiche o animistiche che fossero, e quindi alla stratificazione della società. L'uomo si stava dando un ordinamento piramidale, del tutto sconosciuto nel paleolitico. I paleolitici vivevano dunque nella tanto decantata "età dell'oro", nel giardino dell'Eden i cui frutti erano reperibili senza alcuno sforzo e atrocità? Evidentemente la risposta non può che essere negativa: esisteva la violenza, ma si trattava di una violenza perlopiù individuale, che non è stata affatto debellata dall'istituzione societaria. La guerra, invece, non esisteva affatto, e nella peggiore delle ipotesi si poteva giungere a lotte tra diverse tribù, estremamente rare. Così v'era ovviamente un fattore di disuguaglianza, ma non certo nella misura posta in essere dalle più moderne strutture di potere: le evidenze archeologiche, ad oggi, riportano una generale equità nelle sepolture paleolitiche, non contraddistinte da particolari segni di "leadership" o rango.
Arriviamo ora all'interrogativo cui centinaia di studiosi hanno tentato di dar risposta: perché alcune genti giunsero a tali stravolgimenti e altre no?
Jared Diamond, nel suo saggio "Armi, acciaio e malattie", sostiene che la direzione intrapresa non fu il frutto di una scelta o di una preminenza intellettiva da parte degli eurasiatici, ma null'altro che il risultato di fattori ambientali: nel continente eurasiatico esistevano le migliori condizioni per il raggiungimento del "grande balzo in avanti": clima temperato, molte specie animali e vegetali domesticabili, grande varietà di territori e culture, non separate da limiti naturali difficilmente valicabili. Ecco perché, ad esempio, gli aborigeni australiani, per l'autore non certo meno capaci ed intelligenti di un europeo medio, non arrivarono mai ad intraprendere la via del modernismo e della "tecnica": essi erano tra i popoli più isolati al mondo, in una terra estremamente difficile da abitare e sfruttare, piena d'insidie e circondata dall'oceano. Forse, con l'andare dei secoli, se non dei millenni, anche gli aborigeni, pur senza avere contatto alcuno con gli esploratori, sarebbero giunti alle stesse conclusioni. Così, i nativi americani, i cui avi eurasiatici pervenirono dall'altra parte dell'oceano sfruttando lo stretto di Bering durante l'ultima glaciazione, erano solo in ritardo rispetto alla civiltà europea, quando questa piombò ad impadronirsi della loro terra e delle loro vite.
La tesi di Diamond poggia su alcune evidenze inoppugnabili, vuole essere una critica alla visione razzistica, ma parimenti concede, seppure ingenuamente, la guancia ad un giudizio aprioristico delle popolazioni "selvagge". Il punto cui il saggista non ha prestato attenzione, appare a chi scrive quello nodale: non "perché gli occidentali hanno colonizzato le terre dei papuasi e degli aborigeni, e non viceversa?", ma "perché hanno voluto farlo"? Intendo dire, anche i "Vichinghi", secondo i più recenti accertamenti, giunsero nella Americhe, e ben prima di Colombo, ma non imposero la propria cultura. Forse, mi si obietterà, i Vichinghi non erano in grado di farlo, tanto più che la loro frequentazione delle coste del Nuovo Mondo fu parca e frammentaria. La questione, però, rimane aperta: per quale motivo, tolta un'iniziale curiosità e sete di conoscenza, gli europei decisero di divenire i padroni del Nuovo Mondo? Le cronache del tempo e lo studio della storia mi lasciano perplesso, dubbioso che questa, più che una necessità ineluttabile, fosse una scelta deliberata.
Non v'è tesi evoluzionistica che possa rispondere a questo dilemma, e si sarebbe tentati di dirla con Hobbes ,"homo homini lupus": dunque ogni uomo sbrana il suo consimile per una supposta superiorità. Eppure non possiamo essere certi di quest'argomentazione, poiché non ne abbiamo la controprova. Gli aborigeni, se solo avessero avuto "armi, acciaio e malattie" avrebbero fatto a noi quello che noi abbiamo fatto a loro? Non lo sapremo mai, evidentemente.
Claude Lèvi Strauss sostiene che "l'uomo del neolitico o della protostoria è l'erede di una lunga tradizione scientifica" ma che lo spirito che lo ispirava era ben diverso da quello dei moderni; aggiunge inoltre "questo paradosso non ammette che una soluzione, cioè l'esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo dello spirito umano, ma di due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: (...) come se i rapporti necessari  che costituiscono l'oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l'una prossima all'intuizione sensibile, l'altra più discosta.". Sulla scia di Montaigne, con cui avevamo iniziato, e di molti altri sapienti, egli rivaluta dunque immensamente la nozione di "selvaggio", non ponendolo affatto alla soglia di un processo evolutivo, ma individuandone piuttosto un diverso indirizzo di pensiero e quindi di comportamento.
"Nel Neolitico ci sguazziamo amabilmente" ha affermato un intellettuale poco noto ai più, ma che mi ha estremamente interessato negli ultimi mesi: sto parlando di Francesco Saba Sardi. C'è da aspettarsi che Lévi-Strauss non sarebbe stato per nulla in disaccordo circa questa sua esternazione, e probabilmente entrambi sarebbero stati concordi nel deprecare le più innovative forme di etnocentrismo che, spesso inconsapevolmente, continuiamo ad attuare.
Ho tentato di dar voce ad alcune delle maggiori influenze che hanno contribuito a formare quello che è il mio attuale parere riguardo l'ineguaglianza, l'ingiustizia, la ferocia e la cecità di tanta parte della società in cui vivo, e di cui inevitabilmente faccio parte, non esimendomi affatto dall'essere, almeno parzialmente, complice di questa deriva. Ovviamente vi sono degli aspetti positivi che non posso trascurare, ma ognuno di questi aspetti si fonda sullo sfruttamento delle risorse che sono anche, laddove non solo, di qualcun altro. Se io vivessi in Africa tra una tribù di Pigmei raccoglitori e cacciatori, ammesso che ve ne siano ancora, con tutta probabilità non resisterei una settimana, e ciò non perché l'uomo sia intrinsecamente inadatto allo stile di vita adottato da questi ultimi, ma poiché provengo da generazioni e generazioni di individui che da millenni hanno abbandonato quello stile di vita, e mi occorrerebbe altrettanto tempo per riabituarmici. 
Non posso certamente propormi di risolvere le problematiche insite nella nostra società; come avete potuto apprendere, qualora non lo sapeste già, molte menti estremamente più fini, coraggiose ed istruite della mia, hanno inutilmente tentato di individuare la matrice di tali problemi, proponendo, alle volte, delle soluzioni altrettanto disattese.
Tornare a vivere come i nostri progenitori non si può e, d'altronde, ad oggi, chi lo vorrebbe e soprattutto chi potrebbe permettersi di farlo?
Il mio unico ed, evidentemente, ingenuo auspicio è  il seguente: fare un passo indietro e due di lato, non per distruggere ma per costruire qualcosa di nuovo e diverso, guardando alle cose con una prospettiva differente, donando nuova linfa ai rapporti sociali, diminuendo gli oneri e favorendo altresì il calare dei bisogni, redistribuendo più equamente le risorse. Non certo puntando alla dissoluzione di ogni diseguaglianza, che non ritengo  ulteriormente necessario confermare quale utopia, ma riducendo il divario tra uomo e uomo, rispettando ogni forma d'esistenza,  e tornando a vivere a più stretto contatto con la natura, cui non siamo contrapposti, e che in effetti non esiste come corpo estraneo, perché noi altro non siamo che natura.
Ma la tecnica (nell'accezione heideggeriana) incalza e non è più uno strumento, bensì il soggetto. Mi si rida pure in faccia quando sostengo che siamo divenuti periferia di un sistema il cui centro induce alla disgregazione della reciprocità, e che non ha morale, né senso, né mai lo ha avuto. Abbiamo traslato il cardine del nostro vivere dall'attenzione per la condizione dell'individuo, esponente della natura prima e delle comunità poi, all'incondizionata rilevanza assunta dallo strumento non per l'individuo, ma al di sopra di esso: la clava è divenuta più importante di colui che la utilizzava. E così, prostratici alla tecnica, al dio Danaro e al loro principale frutto, lo sfruttamento o l'annientamento dell'"altro", chiunque egli sia e dovunque si trovi, rischiamo di annullare persino noi stessi. 
Comparse di una vita che non è più la nostra, rifocillati dal calice dell'ambizione, del successo, dell'indifferenza, della vacuità del resto. Quando ci renderemo conto che non v'è più nulla da celebrare in questa messa, se non ripensiamo, ma che dico, se non reimmaginiamo la nostra stessa esistenza?
Nietzsche aveva intuito tutto, ma si era espresso male, o forse aveva peccato d'ottimismo: che si abbia o meno fede, non Dio, ma l'uomo è morto! Asfissiato, agognante, dal suo corpo ormai inerme ancora si leva un tiepido calore, un battito altalenante che non vuol soccombere: un grido o un richiamo sembra di sentire, "vita!"
V'è qualcuno disposto ad ascoltare?