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venerdì 22 agosto 2014

Recensione: Alt-j "An awesome wave"



Alt-J: “An awesome wave”



Che gli Alt-J non siano un gruppo qualsiasi lo s’intuisce già dal loro nome. Un nome da “nerd” potrebbe obiettare qualcuno, e, in effetti, non avrebbe tutti i torti. Perché i nostri ragazzi sono dei nerd, ma nel senso più nobile della parola. Giovani e intelligenti, ma soprattutto originali.
Qualcuno dice che dagli anni ottanta in poi non sono stati più prodotti grandi dischi, e se è pur vero che la realizzazione di pietre miliari è indubbiamente calata negli ultimi decenni, essere così netti spesso non è che il sintomo di uno snobismo di facciata necessario a chi ha bisogno di ghettizzarsi, per riconoscersi come migliore rispetto agli altri.
Ebbene, quest’album datato 2012 farebbe tornare i sensi a molti nostalgici del progressive rock anni 60’ e 70’. Questa è la nuova frontiera del prog, un prog ovviamente molto diverso da quello delle origini, più accessibile ma ugualmente raffinato.
Intro apre l’album con una tastiera che sembra quasi riprodurre la cadenza di un orologio. Poi arrivano le chitarre eteree, la batteria suonata come fosse un metronomo. Entrano anche le voci, con i vocalizzi che contraddistingueranno l’intero lavoro. Un chiaro esempio ne è la successiva interlude 1, interamente cantata a cappella.
Con Tasselate s’intuisce che gli Alt-j, oltre a pagare pegno alla tradizione del progressive, hanno ampiamente assimilato la lezione dell’elettro-rock alla Radiohead, rielaborandolo a loro uso e consumo.
Ma le influenze e le contaminazioni non si esauriscono qui, tanto che nella successiva Breezeblocks, uno dei pezzi più belli del disco, si viene travolti dalla freschezza di un genere tutto nuovo, che miscela un delicato e piacevolissimo pop a divagazioni hip hop e R’n B. Passa solo un secondo e di nuovo tutto cambia. Interlude 2 ci porta in un territorio completamente acustico, dimesso, malinconico, rincuorante.
Something good e Dissolve me proseguono sulla falsariga di Breezeblocks, uno studio del ritmo sofisticato che fa scorrere tutto in maniera fluida; come buttar giù un enorme e fresco bicchier d’acqua, dopo aver corso per chilometri.
Una menzione particolare spetta a Matilda, una canzone d’amore che sembra scesa dalla luna. Anche solo immaginare un pezzo del genere sarebbe assurdo per la maggior parte di noi altri. Nel testo gli inglesi citano il loro collega musicista Johnny Flynn; ma anche qui è evidente la preponderanza della musica, uno strumento vecchio migliaia di anni che recupera, nel corso di queste canzoni, una nuova linfa vitale.  Non occorre citare tutti i restanti componimenti per affermare che vale la pena impiegare un’oretta della propria giornata ad ascoltare questo piccolo diamante grezzo.
Tuttavia non posso fare a meno di spendere due parole per la magica chiusura: Taro ci catapulta in un’atmosfera soffusa, e illumina la stanza con un riff orientaleggiante, quasi arabo oserei dire, che trascinerebbe anche il peggior tronco d’acero (come me per esempio) a lasciarsi andare a qualche passo di danza. Ditemi se questo non è un mezzo miracolo!
Non vi resta che inoltrarvi nella scoperta di questo disco e di questa band, il cui simbolo è il triangolo (dalla combinazione, in ambiente Mac e con tastiera inglese, dei tasti alt-j per l’appunto), il luogo “dove due linee incontrano tre punti”.                                
   Voto: 8/10

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