U2: “Achtung Baby!”
Per un amante di musica recensire un album è sempre un piacere. Il
piacere diviene una specie di rivelazione quando si parla di un album che si
ama, e che in un  certo qual modo ha
segnato la propria adolescenza. 
Rivelazione di se stessi ovviamente, poiché ciò che ami non può che
essere parte di te. 
Che la rivelazione abbia inizio!
Achtung Baby! si apre
con una sorta di esplosione preceduta da campionamenti elettronici in
sottofondo. È il rumore del motore a scoppio di una motosega, la motosega che
sta tagliando l’albero di Giosuè. 
Non si può apprezzare la grandezza di questo disco se non si è mai
ascoltato The Joshua tree, il suo
antecedente gemello diverso, il più grande successo commerciale e di critica
degli U2. 
Il suddetto album s’era chiuso con una ballata atipica, Mothers
of disappeard, incentrata appunto sulla tragedia delle centinaia di
madri sudamericane che avevano dovuto assistere inermi alla scomparsa dei
propri figli. Una canzone quasi inafferrabile, leggera come l’aria, sublime,
una piccola perla che si chiudeva con un gemito di speranza in un mare di
malinconia, nel bel mezzo di un indefinito deserto. 
Ed ecco che attacca la motosega, e ci trascina sulla terra, in una delle
nostre caotiche città, una specie di zoo di rumori e frenesia. Quale luogo
migliore per cominciare un viaggio, se non una Zoo station? La canzone è una
dichiarazione d’intenti, una sorta di prologo all’opera che ci dice: Ok gente,
dimenticate tutto quello che è venuto prima; quest’è tutta un’altra storia! 
E così sia …  Prendiamo al volo il
biglietto per questo treno, ed eccoci sul vagone di Even better than
the real thing, dove la chitarra di The Edge ci accoglie con un riff
convulsivo e asfissiante, e la voce di Bono, mai così suadente, ci implora di
dargli un’ultima chance. Come dirgli di no? Il pezzo è un atto di bravura di
Adam Clayton e Larry Mullen, la sezione ritmica e cuore pulsante degli U2,
troppo spesso messi da parte. 
Un susseguirsi di emozioni, ci porta ad uscire dal vagone, per tirare giù
il finestrino e accenderci una sigaretta. Questa è One, una delle canzoni
d’amore più belle e travagliate degli ultimi cinquanta anni, dove il testo la
fa da padrone. Bono canta “We’re one but we’re not the same, we get to carry
each other”, e sembra riferirsi non solo al rapporto uomo-donna, ai propri
compagni di band, con i quali c’erano state divergenze, ma più in generale a
tutti gli individui, che in fondo messi l’uno contro l’altro sono solo dei
microbi che popolano uno sterminato universo. Giusto il tempo per asciugarsi un
paio di lacrime di commozione e rientrare nel nostro avamposto, ed ecco che un
ritmo tribale ci raggiunge da lontano e si schiude in un’altra delle memorabili
intuizioni “Edgistiche”: Until the end of the world è una
canzone tetra e stupenda. Il suo tema è il tradimento (“Nel giardino giocavo a
fare la puttana, ho baciato le tue labbra e spezzato il tuo cuore”), e la
patina decadente che le fa da contorno la rende ancor più affascinante. 
Il tema del rapporto con l’altro sesso prosegue nella successiva Who’s
gonna ride your wild horses, che risente inevitabilmente
della separazione di Edge da sua moglie, avvenuta proprio durante le
registrazioni del disco. Nel pezzo si sente la mano di Lanois e Brian Eno, con
l’utilizzo di sintetizzatori e una coda che resta memorabile. 
Siamo ancora in viaggio sul nostro vagone, ammirando il paesaggio e i
disegni delle nuvole, e questo dannato chiodo dell’amore non ci vuole lascare
in pace. È così che ascoltiamo anche So cruel, ballata basata su
un semplice giro di piano quanto mai efficace, e un Groove di basso essenziale
ma fin troppo azzeccato.
Eppure c’è una fastidiosissima mosca che si aggira sulla nostra testa e
non ne vuol sapere di lasciarci in pace. Proviamo a beccarla, ma niente.. è
odiosa. Ha degli occhialoni enormi, vestiti di pelle e lunghi capelli tirati
all’indietro. È uno stereotipo, al quale Bono si è ispirato per questo
personaggio. Lo stereotipo della perfetta rockstar, altezzosa, viziata,
menefreghista. Gli stessi stereotipi sono la chiave della canzone ispirata dal
personaggio. The Fly è forse il pezzo più esemplificativo di Achtung, è una
successione di aforismi, luoghi comuni, accompagnati da una chitarra all’acido
con tanto di delay, e ovviamente… un pizzico di poesia: “Amore brilliamo come
una stella che arde, cadiamo giù dal cielo”. Quale modo migliore per
sbeffeggiare i critici che avevano definito la band come quattro bravi
ragazzotti di provincia? E con uno dei migliori soli del nostro guitarhero (in
realtà sono davvero pochi), il pezzo chiude in bellezza.
Scendiamo dal treno in una cittadina qualunque, e ci accingiamo a
camminare per Sentieri misteriosi, dove ascoltiamo un riff
maledettamente accattivante, e un Bono che ci racconta di quanto in fondo noi
uomini siamo spesso in balia delle donne, quasi sempre regine incontrastate in
amore. Ci fermiamo in un bar, ordiniamo un frizzantino mentre ascoltiamo Trying
to throw your arms around the world forse il pezzo più tranquillo tra
gli undici, ma infondo una bella bevuta ci voleva proprio, e ora possiamo
ripartire!
Una breve intro con cori e sintetizzatore, e Ultraviolet esplode in
tutta la sua energia positiva, e ci spinge a camminare più veloce per vedere
dov’è che stiamo andando, sperando che qualcuno ci illumini la strada.
Attraversiamo un campo nel quale si sono fermati dei circensi, tra cui un
acrobata molto particolare.  Il tizio ci
dice di non credere a quello che vediamo, né a quello che sentiamo, e che solo
chiudendo gli occhi riconosceremo il nemico. Acrobat è il brano da
sbattere in faccia a tutti coloro che tacciano gli u2 di non essere dei buoni
musicisti, e di non avere la spina dorsale. La canzone è un connubio di potenza
e malinconia, di delicatezza e di rabbia. Batteria, basso, chitarra e voce sono
qui un tutt’uno che dipinge un quadro ardente di colori e trasudante vita.
Quella stessa vita in cui a volte bisogna essere degli acrobati per andare
avanti, e per non lasciare che “ i bastardi ti tirino giù”. 
Ormai s’è fatto buio, il cielo è un ricamo di stelle, la strafottenza che
ci contraddistingueva fino a poco fa, se n’è andata a farsi benedire, perché
qui fa freddo, siamo in mezzo ai boschi, tutto è scuro e non sappiamo dove
ripararci.  Guardiamo verso l’alto.
Miliardi di stelle.
Noi quasi invisibili, noi piccoli uomini che ci facciamo accecare
dall’amore per una donna, talvolta per un ideale; Love is blindness parla
di entrambi. Un sentimento così maestoso che ti spinge, a volte, a non pensare,
col rischio di tornare a casa con parecchie cicatrici. Com’era accaduto a The
Edge e come accade a un terrorista, un Kamikaze che si ammazza e miete
centinaia di vittime per ottemperare ad un amore malato verso un’idea malata. A
questo è dedicato il testo, non certo una canzoncina. 
Alla fine del solo, Edge rompe una corda e forse mette da parte un pezzo
della sua vita e di quella degli U2. 
Guardiamo le stelle.
Il viaggio è finito, e dov’è che siamo arrivati?
Forse da nessuna parte; ma in fondo a chi importa?
È stato comunque un gran bel viaggio.
Voto: 9.5/10
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