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giovedì 21 agosto 2014

Recensione: U2, Achtung baby!



U2: “Achtung Baby!”




Per un amante di musica recensire un album è sempre un piacere. Il piacere diviene una specie di rivelazione quando si parla di un album che si ama, e che in un  certo qual modo ha segnato la propria adolescenza.
Rivelazione di se stessi ovviamente, poiché ciò che ami non può che essere parte di te.
Che la rivelazione abbia inizio!
Achtung Baby! si apre con una sorta di esplosione preceduta da campionamenti elettronici in sottofondo. È il rumore del motore a scoppio di una motosega, la motosega che sta tagliando l’albero di Giosuè.
Non si può apprezzare la grandezza di questo disco se non si è mai ascoltato The Joshua tree, il suo antecedente gemello diverso, il più grande successo commerciale e di critica degli U2.
Il suddetto album s’era chiuso con una ballata atipica, Mothers of disappeard, incentrata appunto sulla tragedia delle centinaia di madri sudamericane che avevano dovuto assistere inermi alla scomparsa dei propri figli. Una canzone quasi inafferrabile, leggera come l’aria, sublime, una piccola perla che si chiudeva con un gemito di speranza in un mare di malinconia, nel bel mezzo di un indefinito deserto.
Ed ecco che attacca la motosega, e ci trascina sulla terra, in una delle nostre caotiche città, una specie di zoo di rumori e frenesia. Quale luogo migliore per cominciare un viaggio, se non una Zoo station? La canzone è una dichiarazione d’intenti, una sorta di prologo all’opera che ci dice: Ok gente, dimenticate tutto quello che è venuto prima; quest’è tutta un’altra storia!
E così sia …  Prendiamo al volo il biglietto per questo treno, ed eccoci sul vagone di Even better than the real thing, dove la chitarra di The Edge ci accoglie con un riff convulsivo e asfissiante, e la voce di Bono, mai così suadente, ci implora di dargli un’ultima chance. Come dirgli di no? Il pezzo è un atto di bravura di Adam Clayton e Larry Mullen, la sezione ritmica e cuore pulsante degli U2, troppo spesso messi da parte.
Un susseguirsi di emozioni, ci porta ad uscire dal vagone, per tirare giù il finestrino e accenderci una sigaretta. Questa è One, una delle canzoni d’amore più belle e travagliate degli ultimi cinquanta anni, dove il testo la fa da padrone. Bono canta “We’re one but we’re not the same, we get to carry each other”, e sembra riferirsi non solo al rapporto uomo-donna, ai propri compagni di band, con i quali c’erano state divergenze, ma più in generale a tutti gli individui, che in fondo messi l’uno contro l’altro sono solo dei microbi che popolano uno sterminato universo. Giusto il tempo per asciugarsi un paio di lacrime di commozione e rientrare nel nostro avamposto, ed ecco che un ritmo tribale ci raggiunge da lontano e si schiude in un’altra delle memorabili intuizioni “Edgistiche”: Until the end of the world è una canzone tetra e stupenda. Il suo tema è il tradimento (“Nel giardino giocavo a fare la puttana, ho baciato le tue labbra e spezzato il tuo cuore”), e la patina decadente che le fa da contorno la rende ancor più affascinante.
Il tema del rapporto con l’altro sesso prosegue nella successiva Who’s gonna ride your wild horses, che risente inevitabilmente della separazione di Edge da sua moglie, avvenuta proprio durante le registrazioni del disco. Nel pezzo si sente la mano di Lanois e Brian Eno, con l’utilizzo di sintetizzatori e una coda che resta memorabile.
Siamo ancora in viaggio sul nostro vagone, ammirando il paesaggio e i disegni delle nuvole, e questo dannato chiodo dell’amore non ci vuole lascare in pace. È così che ascoltiamo anche So cruel, ballata basata su un semplice giro di piano quanto mai efficace, e un Groove di basso essenziale ma fin troppo azzeccato.
Eppure c’è una fastidiosissima mosca che si aggira sulla nostra testa e non ne vuol sapere di lasciarci in pace. Proviamo a beccarla, ma niente.. è odiosa. Ha degli occhialoni enormi, vestiti di pelle e lunghi capelli tirati all’indietro. È uno stereotipo, al quale Bono si è ispirato per questo personaggio. Lo stereotipo della perfetta rockstar, altezzosa, viziata, menefreghista. Gli stessi stereotipi sono la chiave della canzone ispirata dal personaggio. The Fly è forse il pezzo più esemplificativo di Achtung, è una successione di aforismi, luoghi comuni, accompagnati da una chitarra all’acido con tanto di delay, e ovviamente… un pizzico di poesia: “Amore brilliamo come una stella che arde, cadiamo giù dal cielo”. Quale modo migliore per sbeffeggiare i critici che avevano definito la band come quattro bravi ragazzotti di provincia? E con uno dei migliori soli del nostro guitarhero (in realtà sono davvero pochi), il pezzo chiude in bellezza.
Scendiamo dal treno in una cittadina qualunque, e ci accingiamo a camminare per Sentieri misteriosi, dove ascoltiamo un riff maledettamente accattivante, e un Bono che ci racconta di quanto in fondo noi uomini siamo spesso in balia delle donne, quasi sempre regine incontrastate in amore. Ci fermiamo in un bar, ordiniamo un frizzantino mentre ascoltiamo Trying to throw your arms around the world forse il pezzo più tranquillo tra gli undici, ma infondo una bella bevuta ci voleva proprio, e ora possiamo ripartire!
Una breve intro con cori e sintetizzatore, e Ultraviolet esplode in tutta la sua energia positiva, e ci spinge a camminare più veloce per vedere dov’è che stiamo andando, sperando che qualcuno ci illumini la strada.
Attraversiamo un campo nel quale si sono fermati dei circensi, tra cui un acrobata molto particolare.  Il tizio ci dice di non credere a quello che vediamo, né a quello che sentiamo, e che solo chiudendo gli occhi riconosceremo il nemico. Acrobat è il brano da sbattere in faccia a tutti coloro che tacciano gli u2 di non essere dei buoni musicisti, e di non avere la spina dorsale. La canzone è un connubio di potenza e malinconia, di delicatezza e di rabbia. Batteria, basso, chitarra e voce sono qui un tutt’uno che dipinge un quadro ardente di colori e trasudante vita. Quella stessa vita in cui a volte bisogna essere degli acrobati per andare avanti, e per non lasciare che “ i bastardi ti tirino giù”.
Ormai s’è fatto buio, il cielo è un ricamo di stelle, la strafottenza che ci contraddistingueva fino a poco fa, se n’è andata a farsi benedire, perché qui fa freddo, siamo in mezzo ai boschi, tutto è scuro e non sappiamo dove ripararci.  Guardiamo verso l’alto. Miliardi di stelle.
Noi quasi invisibili, noi piccoli uomini che ci facciamo accecare dall’amore per una donna, talvolta per un ideale; Love is blindness parla di entrambi. Un sentimento così maestoso che ti spinge, a volte, a non pensare, col rischio di tornare a casa con parecchie cicatrici. Com’era accaduto a The Edge e come accade a un terrorista, un Kamikaze che si ammazza e miete centinaia di vittime per ottemperare ad un amore malato verso un’idea malata. A questo è dedicato il testo, non certo una canzoncina.
Alla fine del solo, Edge rompe una corda e forse mette da parte un pezzo della sua vita e di quella degli U2.
Guardiamo le stelle.
Il viaggio è finito, e dov’è che siamo arrivati?
Forse da nessuna parte; ma in fondo a chi importa?
È stato comunque un gran bel viaggio.

Voto: 9.5/10

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