Johnny Cash: “Unchained”
Alzi
la mano chi di voi ama il country!
So
bene che non è un genere molto appetibile ai giorni nostri, appare trito,
monotono, vecchio.
Johnny
Cash è riusicto nell’ardua impresa di farmi apprezzare questo tipo di musica e
io spero, tramite la sua intensa voce, di farlo stimare un po’ anche a voi,
qualora non lo abbiate già fatto.
“The
man in black” ha avuto una lunga e gloriosa carriera, partita nel 1955 da
Memphis e proseguita in un continuo crescendo fino all’incisione su LP del famoso
concerto At Folsom Prison, tenutosi nel penitenziario di
Folsom il 13 gennaio 1968. (In tal senso vi rimando alla visione dello squisito
film “ Walk the line -Quando l’amore brucia l’anima”, attinente proprio a
questa parte della vita del cantautore.)
Durante
tutti gli anni 70’ e i primi 80’, Cash continuò la sua attività di musicista
molto apprezzato, alternandola a quella di attore, specie in alcuni film
Western. 
Da lì
in poi cominciò il suo declino artistico. 
Il
country e il rock’n roll non erano più in voga, e in molti dimenticarono la
grandezza di questo artista.
Non
tutti però. 
Tra
questi, Bono e gli U2 che nel 1993 gli chiesero di partecipare ad un brano del
loro album più sperimentale: Zooropa.
La
traccia, che chiude il disco, è interamente cantata da Cash. 
Ecco,
se c’è una canzone che non vi immaginereste mai possa essere cantata dal nostro
eroe, è proprio quella.
Suoni
spaziali, un arrangiamento lasciato volutamente abbozzato, la voce e
l’interpretazione di Johnny che fanno letteralmente venire la pelle d’oca.
Esperimento
pienamente riuscito.
Poco
a poco tutto il mondo cominciò a rivalutare la figura di quell’uomo così forte
ma così fragile, e il genio di Rick Rubin (a cui ho già accennato nella
recensione dedicata ai Red Hot) non si lasciò scappare l’occasione di produrre
qualche disco memorabile e di racimolare un po’ di soldi.
Così
ebbe inizio la saga degli “American Recordings” (dischi scarni e meravigliosi,
spesso incentrati solo sulla voce e la chitarra di Cash, che vi reinterpreta
quasi sempre brani di altri artisti) che si concluse solo con la morte del
cantautore.
Unchained ne è il secondo atto.
A
differenza del primo American Recordings,
il disco si caratterizza per una maggiore complessità compositiva, dovuta anche
alla partecipazione, come strumentisti, di Tom Petty & The Heartbreakers, e
contiene al suo interno undici cover e tre brani originali.
Attraverso
queste tracce è evidente che la voce baritonale di Cash (allora già
sessantunenne) non è stata rovinata dal passare dei decenni, ma ha anzi assunto
sfumature più significative, fino a toccare quello che è a mio parere l’apice
dell’espressività.
Rubin
compie un ottimo lavoro dietro le quinte, togliendo tutto ciò che è superfluo,
e amplificando al massimo le potenzialità comunicative di quest’opera.
Le canzoni si
alternano in un via vai di Rockabilly, Rhythm and Blues, Country, Jazz.
Qualche esempio: Rusty
Cage è un pezzo dei Soundgarden, qui reinterpretato in chiave acustica
e con un retrogusto Western.
Southern accents, cover degli Heartbreakers, diventa
un pezzo strappalacrime grazie alla strepitosa esecuzione di Johnny.
Poi ci sono i pezzi
originali: Country boy, già edita dallo stesso Cash nel lontano 1957, che
assume tonalità più spinte tramite un arrangiamento rockeggiante, la
spumeggiante Mean eyed Cat, e la fantasmagorica Meet me in Heaven.
Fin qui un disco
eccellente, ma quel che lo rende straordinario sono due pezzi che riescono a
fermare il tempo, e ci ricordano che la musica è fatta per riempire i nostri
cuori. 
Spiritual è il rifacimento dell’originale di
un gruppo chiamato Spain. (Non potete non ascoltare il loro disco d’esordio The blue moods of spain, semplicemente
eccezionale.)
Su un arpeggio povero
e conturbante, è la voce di Cash a prendere il sopravvento. 
E allora ci sembra che
tutte quelle stramberie che sono venute dopo non servano a nulla, che basti una
chitarra e una voce struggente a strapparci via un pezzetto d’ anima; viene
voglia di gettare a mare tutti quegli album posticci di gente che si ritiene
profonda, ma che non possiede nemmeno un decimo della grandezza e della potenza
espressiva di J.R. Cash.
“Jesus, oh my Jesus I don’t wanna die alone”. Una preghiera in musica.
Lo stesso schema
percorre Unchained di Jude Johnstone, in cui il timbro vocale di J.R.
diviene (se possibile) ancora più epico e fa vibrare il nostro ego,
emozionandoci a dismisura. 
Vi consiglio di
ascoltarla in assoluto silenzio, nel buio della vostra stanza.
Johnny Cash incarna
l’essenza stessa dell’interpretazione, e sfata il mito secondo il quale,
superata una certa età, bisognerebbe ritirarsi nelle proprie stanze a condurre
una vita avulsa e per così dire stoica.
Se c’è il talento e soprattutto
se c’è ancora la passione, ben vengano i settantenni che cantano infinitamente
meglio di quei bulletti con la voce artefatta, che troppo spesso siamo
costretti ad ascoltare.
Rispetto per l’anzianità,
rispetto per la caducità della vita che per quanto dura da accettare,
conferisce valore alla nostra esistenza. 
Rispetto per l’uomo
che voleva “rigare dritto”.    
   Voto:8.5/10
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