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venerdì 29 agosto 2014

Recensione: Johnny Cash, "Unchained"




Johnny Cash: “Unchained”


Alzi la mano chi di voi ama il country!
So bene che non è un genere molto appetibile ai giorni nostri, appare trito, monotono, vecchio.
Johnny Cash è riusicto nell’ardua impresa di farmi apprezzare questo tipo di musica e io spero, tramite la sua intensa voce, di farlo stimare un po’ anche a voi, qualora non lo abbiate già fatto.
“The man in black” ha avuto una lunga e gloriosa carriera, partita nel 1955 da Memphis e proseguita in un continuo crescendo fino all’incisione su LP del famoso concerto At Folsom Prison, tenutosi nel penitenziario di Folsom il 13 gennaio 1968. (In tal senso vi rimando alla visione dello squisito film “ Walk the line -Quando l’amore brucia l’anima”, attinente proprio a questa parte della vita del cantautore.)
Durante tutti gli anni 70’ e i primi 80’, Cash continuò la sua attività di musicista molto apprezzato, alternandola a quella di attore, specie in alcuni film Western.
Da lì in poi cominciò il suo declino artistico.
Il country e il rock’n roll non erano più in voga, e in molti dimenticarono la grandezza di questo artista.
Non tutti però.
Tra questi, Bono e gli U2 che nel 1993 gli chiesero di partecipare ad un brano del loro album più sperimentale: Zooropa.
La traccia, che chiude il disco, è interamente cantata da Cash.
Ecco, se c’è una canzone che non vi immaginereste mai possa essere cantata dal nostro eroe, è proprio quella.
Suoni spaziali, un arrangiamento lasciato volutamente abbozzato, la voce e l’interpretazione di Johnny che fanno letteralmente venire la pelle d’oca.
Esperimento pienamente riuscito.
Poco a poco tutto il mondo cominciò a rivalutare la figura di quell’uomo così forte ma così fragile, e il genio di Rick Rubin (a cui ho già accennato nella recensione dedicata ai Red Hot) non si lasciò scappare l’occasione di produrre qualche disco memorabile e di racimolare un po’ di soldi.
Così ebbe inizio la saga degli “American Recordings” (dischi scarni e meravigliosi, spesso incentrati solo sulla voce e la chitarra di Cash, che vi reinterpreta quasi sempre brani di altri artisti) che si concluse solo con la morte del cantautore.
Unchained ne è il secondo atto.
A differenza del primo American Recordings, il disco si caratterizza per una maggiore complessità compositiva, dovuta anche alla partecipazione, come strumentisti, di Tom Petty & The Heartbreakers, e contiene al suo interno undici cover e tre brani originali.
Attraverso queste tracce è evidente che la voce baritonale di Cash (allora già sessantunenne) non è stata rovinata dal passare dei decenni, ma ha anzi assunto sfumature più significative, fino a toccare quello che è a mio parere l’apice dell’espressività.
Rubin compie un ottimo lavoro dietro le quinte, togliendo tutto ciò che è superfluo, e amplificando al massimo le potenzialità comunicative di quest’opera.
Le canzoni si alternano in un via vai di Rockabilly, Rhythm and Blues, Country, Jazz.
Qualche esempio: Rusty Cage è un pezzo dei Soundgarden, qui reinterpretato in chiave acustica e con un retrogusto Western.
Southern accents, cover degli Heartbreakers, diventa un pezzo strappalacrime grazie alla strepitosa esecuzione di Johnny.
Poi ci sono i pezzi originali: Country boy, già edita dallo stesso Cash nel lontano 1957, che assume tonalità più spinte tramite un arrangiamento rockeggiante, la spumeggiante Mean eyed Cat, e la fantasmagorica Meet me in Heaven.
Fin qui un disco eccellente, ma quel che lo rende straordinario sono due pezzi che riescono a fermare il tempo, e ci ricordano che la musica è fatta per riempire i nostri cuori.
Spiritual è il rifacimento dell’originale di un gruppo chiamato Spain. (Non potete non ascoltare il loro disco d’esordio The blue moods of spain, semplicemente eccezionale.)
Su un arpeggio povero e conturbante, è la voce di Cash a prendere il sopravvento.
E allora ci sembra che tutte quelle stramberie che sono venute dopo non servano a nulla, che basti una chitarra e una voce struggente a strapparci via un pezzetto d’ anima; viene voglia di gettare a mare tutti quegli album posticci di gente che si ritiene profonda, ma che non possiede nemmeno un decimo della grandezza e della potenza espressiva di J.R. Cash.
“Jesus, oh my Jesus I don’t wanna die alone”. Una preghiera in musica.
Lo stesso schema percorre Unchained di Jude Johnstone, in cui il timbro vocale di J.R. diviene (se possibile) ancora più epico e fa vibrare il nostro ego, emozionandoci a dismisura.
Vi consiglio di ascoltarla in assoluto silenzio, nel buio della vostra stanza.
Johnny Cash incarna l’essenza stessa dell’interpretazione, e sfata il mito secondo il quale, superata una certa età, bisognerebbe ritirarsi nelle proprie stanze a condurre una vita avulsa e per così dire stoica.
Se c’è il talento e soprattutto se c’è ancora la passione, ben vengano i settantenni che cantano infinitamente meglio di quei bulletti con la voce artefatta, che troppo spesso siamo costretti ad ascoltare.
Rispetto per l’anzianità, rispetto per la caducità della vita che per quanto dura da accettare, conferisce valore alla nostra esistenza.
Rispetto per l’uomo che voleva “rigare dritto”.   
   Voto:8.5/10

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