Il non vago sospetto che nella società attuale, come in tutte quelle che l'hanno preceduta, vi sia un intrinseco fattore di fondamentale disequilibrio e disarmonia, mi ha spinto ad approfondire i miei interessi circa l'origine dell'uomo, la sua natura, i passi che lo hanno condotto ad intraprendere il percorso che sta tutt'oggi seguendo.
Le mie precarissime conoscenze al riguardo derivavano, e per lo più ancora derivano, da riflessioni personali scaturite dall'esperienza diretta e dalle residue nozioni didattiche ed extrascolastiche. Ho cercato dunque di ampliare ed integrare queste fragili consapevolezze, dedicandomi allo studio di autori che hanno speso un'intera esistenza nell'analisi di tali problematiche, non solo compiendo erudite ricerche metodologiche, ma anche vivendo, in maniera piena, sulla propria pelle realtà estremamente distanti dalla nostra.
Mi riferisco alla quotidianità di quei popoli, oggi pressoché estinti, cui sin dal 500' la civiltà occidentale affibbió l'inproprio appellativo di "selvaggi".
A ben vedere la storia dell'umanità, per come ci è stata tramandata attraverso le fonti scritte, è contraddistinta dalla dicotomia tra "barbari e civili".
Nel chiarire tale netta distinzione, operata da uomini delle più disparate epoche fino a giungere a quella contemporanea, ben si presta una riflessione del filosofo francese Montaigne, che già nel sedicesimo secolo affermava: "Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto in ogni sua cosa".
Montaigne, la cui rilevanza nel dipanarsi della tendenziosa dualità tra civiltà e barbarie rimane capitale, non fu certo il primo a porre delle rilevanti questioni in ordine alla faziosità di tali distinzioni: tra gli altri, già i greci Eschilo e Erodoto, con le dovute differenze storico-sociali, avevano marcato l'accento sulle miriadi di sfumature che una così netta separazione poteva indurre.
Quando, dal Cinquecento in poi, la conquista europea dei territori americani condusse allo sterminio di milioni di nativi (se non perpetrato con la violenza, raggiunto tramite la diffusione di malattie mortali per gli indigeni), alla sistematica distruzione delle loro civiltà, e all'assimilazione per lo più forzata dei residui sopravvissuti, i barbari vennero identificati con i selvaggi.
Successivamente, secondo l'evoluzionista ottocentesco L.H. Morgan, quello del selvaggio altro non era che uno stadio dei tre sviluppi della cultura umana, i cui successivi sarebbero stati, per l'appunto, il barbaro ed infine il civile.
Mi piace soffermarmi appena sull'etimologia del termine "selvaggio": dal latino silvaticus, selvatico, non coltivato, estraneo alla cultura e a tutto ciò che avviene all'interno delle mura della città.
Basterebbe questa definizione per screditare totalmente la visione etnocentrica dell'uomo occidentale ottocentesco: diverse popolazioni considerate da quest'ultimo selvagge vivevano in maestose città, con monumenti che nulla avevano da invidiare a quelli europei.
Eppure, bisogna andare più a fondo alla questione se si vuole smontare totalmente la visione pregiudizialmente negativa che, in questo preciso istante, milioni di individui continuano ad avere di tutto ciò che non è progredito, sviluppato, moderno.
In polemica contro le più ciecamente abbagliate tendenze illuministiche del suo tempo, Jean Jacques Rousseau trasse la sua aspra critica della civiltà, causa dei malanni umani, e l'elogio della condizione naturale.
Dobbiamo a questo punto brevemente addentrarci in quella che viene comunemente definita preistoria, in una delle sue tappe fondamentali: il Neolitico.
Sembrerebbe che tutti gli studiosi moderni siano concordi nell'individuare in questa fase il germinare di quelle che sarebbero state le fondamenta di quasi tutte le società attuali: in primo luogo il graduale abbandono del nomadismo, della caccia e della raccolta, la scoperta della domesticazione e dell'allevamento degli animali, dell'agricoltura. Tali pratiche permisero, nel corso di secoli, di creare un "surplus" alimentare, che a sua volta alimentò l'istituzione di figure non addette al diretto reperimento di sostanze nutritive e all'adempimento di attività vitali, utilitaristiche o animistiche che fossero, e quindi alla stratificazione della società. L'uomo si stava dando un ordinamento piramidale, del tutto sconosciuto nel paleolitico. I paleolitici vivevano dunque nella tanto decantata "età dell'oro", nel giardino dell'Eden i cui frutti erano reperibili senza alcuno sforzo e atrocità? Evidentemente la risposta non può che essere negativa: esisteva la violenza, ma si trattava di una violenza perlopiù individuale, che non è stata affatto debellata dall'istituzione societaria. La guerra, invece, non esisteva affatto, e nella peggiore delle ipotesi si poteva giungere a lotte tra diverse tribù, estremamente rare. Così v'era ovviamente un fattore di disuguaglianza, ma non certo nella misura posta in essere dalle più moderne strutture di potere: le evidenze archeologiche, ad oggi, riportano una generale equità nelle sepolture paleolitiche, non contraddistinte da particolari segni di "leadership" o rango.
Arriviamo ora all'interrogativo cui centinaia di studiosi hanno tentato di dar risposta: perché alcune genti giunsero a tali stravolgimenti e altre no?
Jared Diamond, nel suo saggio "Armi, acciaio e malattie", sostiene che la direzione intrapresa non fu il frutto di una scelta o di una preminenza intellettiva da parte degli eurasiatici, ma null'altro che il risultato di fattori ambientali: nel continente eurasiatico esistevano le migliori condizioni per il raggiungimento del "grande balzo in avanti": clima temperato, molte specie animali e vegetali domesticabili, grande varietà di territori e culture, non separate da limiti naturali difficilmente valicabili. Ecco perché, ad esempio, gli aborigeni australiani, per l'autore non certo meno capaci ed intelligenti di un europeo medio, non arrivarono mai ad intraprendere la via del modernismo e della "tecnica": essi erano tra i popoli più isolati al mondo, in una terra estremamente difficile da abitare e sfruttare, piena d'insidie e circondata dall'oceano. Forse, con l'andare dei secoli, se non dei millenni, anche gli aborigeni, pur senza avere contatto alcuno con gli esploratori, sarebbero giunti alle stesse conclusioni. Così, i nativi americani, i cui avi eurasiatici pervenirono dall'altra parte dell'oceano sfruttando lo stretto di Bering durante l'ultima glaciazione, erano solo in ritardo rispetto alla civiltà europea, quando questa piombò ad impadronirsi della loro terra e delle loro vite.
La tesi di Diamond poggia su alcune evidenze inoppugnabili, vuole essere una critica alla visione razzistica, ma parimenti concede, seppure ingenuamente, la guancia ad un giudizio aprioristico delle popolazioni "selvagge". Il punto cui il saggista non ha prestato attenzione, appare a chi scrive quello nodale: non "perché gli occidentali hanno colonizzato le terre dei papuasi e degli aborigeni, e non viceversa?", ma "perché hanno voluto farlo"? Intendo dire, anche i "Vichinghi", secondo i più recenti accertamenti, giunsero nella Americhe, e ben prima di Colombo, ma non imposero la propria cultura. Forse, mi si obietterà, i Vichinghi non erano in grado di farlo, tanto più che la loro frequentazione delle coste del Nuovo Mondo fu parca e frammentaria. La questione, però, rimane aperta: per quale motivo, tolta un'iniziale curiosità e sete di conoscenza, gli europei decisero di divenire i padroni del Nuovo Mondo? Le cronache del tempo e lo studio della storia mi lasciano perplesso, dubbioso che questa, più che una necessità ineluttabile, fosse una scelta deliberata.
Non v'è tesi evoluzionistica che possa rispondere a questo dilemma, e si sarebbe tentati di dirla con Hobbes ,"homo homini lupus": dunque ogni uomo sbrana il suo consimile per una supposta superiorità. Eppure non possiamo essere certi di quest'argomentazione, poiché non ne abbiamo la controprova. Gli aborigeni, se solo avessero avuto "armi, acciaio e malattie" avrebbero fatto a noi quello che noi abbiamo fatto a loro? Non lo sapremo mai, evidentemente.
Claude Lèvi Strauss sostiene che "l'uomo del neolitico o della protostoria è l'erede di una lunga tradizione scientifica" ma che lo spirito che lo ispirava era ben diverso da quello dei moderni; aggiunge inoltre "questo paradosso non ammette che una soluzione, cioè l'esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo dello spirito umano, ma di due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: (...) come se i rapporti necessari che costituiscono l'oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l'una prossima all'intuizione sensibile, l'altra più discosta.". Sulla scia di Montaigne, con cui avevamo iniziato, e di molti altri sapienti, egli rivaluta dunque immensamente la nozione di "selvaggio", non ponendolo affatto alla soglia di un processo evolutivo, ma individuandone piuttosto un diverso indirizzo di pensiero e quindi di comportamento.
"Nel Neolitico ci sguazziamo amabilmente" ha affermato un intellettuale poco noto ai più, ma che mi ha estremamente interessato negli ultimi mesi: sto parlando di Francesco Saba Sardi. C'è da aspettarsi che Lévi-Strauss non sarebbe stato per nulla in disaccordo circa questa sua esternazione, e probabilmente entrambi sarebbero stati concordi nel deprecare le più innovative forme di etnocentrismo che, spesso inconsapevolmente, continuiamo ad attuare.
Ho tentato di dar voce ad alcune delle maggiori influenze che hanno contribuito a formare quello che è il mio attuale parere riguardo l'ineguaglianza, l'ingiustizia, la ferocia e la cecità di tanta parte della società in cui vivo, e di cui inevitabilmente faccio parte, non esimendomi affatto dall'essere, almeno parzialmente, complice di questa deriva. Ovviamente vi sono degli aspetti positivi che non posso trascurare, ma ognuno di questi aspetti si fonda sullo sfruttamento delle risorse che sono anche, laddove non solo, di qualcun altro. Se io vivessi in Africa tra una tribù di Pigmei raccoglitori e cacciatori, ammesso che ve ne siano ancora, con tutta probabilità non resisterei una settimana, e ciò non perché l'uomo sia intrinsecamente inadatto allo stile di vita adottato da questi ultimi, ma poiché provengo da generazioni e generazioni di individui che da millenni hanno abbandonato quello stile di vita, e mi occorrerebbe altrettanto tempo per riabituarmici.
Non posso certamente propormi di risolvere le problematiche insite nella nostra società; come avete potuto apprendere, qualora non lo sapeste già, molte menti estremamente più fini, coraggiose ed istruite della mia, hanno inutilmente tentato di individuare la matrice di tali problemi, proponendo, alle volte, delle soluzioni altrettanto disattese.
Tornare a vivere come i nostri progenitori non si può e, d'altronde, ad oggi, chi lo vorrebbe e soprattutto chi potrebbe permettersi di farlo?
Il mio unico ed, evidentemente, ingenuo auspicio è il seguente: fare un passo indietro e due di lato, non per distruggere ma per costruire qualcosa di nuovo e diverso, guardando alle cose con una prospettiva differente, donando nuova linfa ai rapporti sociali, diminuendo gli oneri e favorendo altresì il calare dei bisogni, redistribuendo più equamente le risorse. Non certo puntando alla dissoluzione di ogni diseguaglianza, che non ritengo ulteriormente necessario confermare quale utopia, ma riducendo il divario tra uomo e uomo, rispettando ogni forma d'esistenza, e tornando a vivere a più stretto contatto con la natura, cui non siamo contrapposti, e che in effetti non esiste come corpo estraneo, perché noi altro non siamo che natura.
Ma la tecnica (nell'accezione heideggeriana) incalza e non è più uno strumento, bensì il soggetto. Mi si rida pure in faccia quando sostengo che siamo divenuti periferia di un sistema il cui centro induce alla disgregazione della reciprocità, e che non ha morale, né senso, né mai lo ha avuto. Abbiamo traslato il cardine del nostro vivere dall'attenzione per la condizione dell'individuo, esponente della natura prima e delle comunità poi, all'incondizionata rilevanza assunta dallo strumento non per l'individuo, ma al di sopra di esso: la clava è divenuta più importante di colui che la utilizzava. E così, prostratici alla tecnica, al dio Danaro e al loro principale frutto, lo sfruttamento o l'annientamento dell'"altro", chiunque egli sia e dovunque si trovi, rischiamo di annullare persino noi stessi.
Comparse di una vita che non è più la nostra, rifocillati dal calice dell'ambizione, del successo, dell'indifferenza, della vacuità del resto. Quando ci renderemo conto che non v'è più nulla da celebrare in questa messa, se non ripensiamo, ma che dico, se non reimmaginiamo la nostra stessa esistenza?
Nietzsche aveva intuito tutto, ma si era espresso male, o forse aveva peccato d'ottimismo: che si abbia o meno fede, non Dio, ma l'uomo è morto! Asfissiato, agognante, dal suo corpo ormai inerme ancora si leva un tiepido calore, un battito altalenante che non vuol soccombere: un grido o un richiamo sembra di sentire, "vita!"
V'è qualcuno disposto ad ascoltare?
V'è qualcuno disposto ad ascoltare?
Bravo Pietro, hai colto il senso vano e vacuo dell'uomo della nostra attuale società materialista- Pur godendo di straordinarie conquiste scientifiche e tecnologiche, soggiogato da frenetica informazione, è come un bimbo impaurito che ha perso la via del ritorno a casa. Glorioso delle sue conquiste, sia nel campo tecnologico che finanziario, e sostituite da quest'ultime quale mero numero consumista, è divenuto, senza volerlo, serpente che si morde la coda. Uomo Moderno ma Nudo, con la disillusione del primato della sua presunta Civiltà.
RispondiEliminaGrazie Vincenzo, hai saputo esprimere in poche e puntuali parole, ciò che io ho detto in maniera più farraginosa. Sono felice di avere un interlocutore valido e sensibile come te
EliminaCiao Pietro,
RispondiEliminail tuo scritto mi ha riportato a quasi cinquant'anni fa, agli esami di maturità, anno 1971, quando nel tema di italiano sostenni la tesi che a parte l'oggettività dei diversi contesti, dal punto di vista soggettivo la vita di un uomo selvaggio non aveva niente da invidiare a quella di un uomo del nostro mondo civilizzato. Ovviamente a quei tempi non avevo letto niente di antropologia e meno che meno il contratto sociale di Rousseau. Per la cronaca, e non per altro, quell'anno mi diplomai con il miglior voto del "Pilla", ma più che il tema di Italiano sul quale i commissari incuriositi mi interrogarono e disquisirono a lungo agli orali, credo che abbia influito la scelta della materia specifica, Ragioneria, la stessa del commissari interno, laddove quasi tutti i maturandi avevano ripiegato sul più abbordabile Diritto.
Venendo a noi, vedo che hai buone qualità di scrittura e di argomentazione per cui ti faccio i complimenti.
Giovanni Mascia
PS
Una curiosità: leggo "saggiatore", forse volevi scrivere saggista?
Ciao Giovanni. Intanto ti ringrazio per gli apprezzamenti, mi fanno molto piacere. Ho controllato e in effetti il termine saggiatore è improprio, provvedo subito a sostituirlo con saggista, e ti ringrazio per la segnalazione.
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